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Hugh Jackman

La famiglia prima di tutto

di Tommaso Martinelli

Numero 240 - Maggio 2023

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Professionista sempre impeccabile, si è lasciato ispirare dai suoi personaggi anche nella sua vita privata. Prendendo, ovviamente, delle “sane e buone abitudini…”


In quasi trent’anni di carriera, Hugh Jackman ha preso parte ad innumerevoli pellicole dai più disparati generi cinematografici, affascinandoci sia nelle vesti del mutante Wolverine dallo scheletro di adamantio nella saga cinematografica degli X-Men, sia con la sua innata eleganza e la sua voce in The Greatest Showman e Les Misérables. -taglio- Un attore che non si è mai fatto rinchiudere in un ruolo predefinito ma che ha sfidato e vinto tutte le prove che ha trovato sul suo cammino, anche nella vita privata, sottoponendosi all'asportazione di ben quattro tumori alla pelle. Lo scorso settembre è sbarcato al Lido di Venezia con The Son, secondo lungometraggio dello scrittore e regista francese Florian Zeller, tratto dall’opera teatrale Le Fils del 2018 scritta dallo stesso autore, uscito al cinema lo scorso febbraio. The Son racconta la storia di Peter, interpretato da Jackman, con il figlio appena nato e la nuova compagna Beth, che ha il volto di Vanessa Kirby, viene sconvolta quando l’ex moglie Kate (Laura Dern) ricompare con il figlio Nicholas, ormai adolescente. Il giovane manca da scuola da mesi ed è tormentato, distante e arrabbiato. Un film sul senso di colpa destinato a risuonare profondamente in chiunque abbia dovuto lottare per la propria famiglia. Qual è il confine tra ciò che è meglio per noi e le responsabilità che abbiamo verso gli altri e verso i nostri figli? Hugh, cosa ti ha spinto ad accettare di partecipare a questo film? “Non avevo visto la versione teatrale. Avevo letto la sceneggiatura e visto The Father: ho avuto una sensazione intensa e bella, il sentore che quella parte fosse giusta per me in questo momento della mia vita. Ho scritto al regista dicendogli che mi sarebbe piaciuto tanto interpretare quel personaggio. In un certo senso si può dire che io abbia rincorso questo ruolo (sorride, ndr).” Il tuo ruolo, molto intenso, ti ha fatto intraprendere una sorta di “viaggio genitoriale”… “In The Son interpreto un padre, mentre nei panni del mio c’è Anthony Hopkins, un attore che ammiro e al quale mi ispiro, che è un uomo che ci ricorda sempre quanto tutti noi, in fin dei conti, siamo ancora figli e figlie di qualcuno. Inevitabilmente, siamo sempre condizionati dal nostro passato così come dal nostro presente.” Com’è stato l’incontro con Anthony Hopkins? “Ero al settimo cielo ma, soprattutto, molto emozionato e un po’ nervoso. E’ stato davvero un privilegio per me poter lavorare con lui. Lui è un titano, è pieno di vita, una persona bellissima.” Come ha influito questa esperienza cinematografica sul tuo modo di essere padre nella vita di tutti i giorni? “Per molti tantissimi anni, come genitore, il mio compito è stato quello di apparire forte e affidabile e di non preoccuparmi mai: l’obiettivo era quello di non pesare sui miei figli. Sicuramente dopo questo film ho cambiato il mio approccio: condivido molto di più le mie vulnerabilità con i miei figli di 17 e 22 anni e vedo un senso di sollievo sui loro volti quando lo faccio.” È difficile essere genitori? “Lo è. Avrei davvero apprezzato se anni fa qualcuno mi avesse detto che non sempre avrei preso la decisione giusta. Ma va bene così. Quello del genitore è un ruolo che in qualche modo ci mette di fronte alla nostra vulnerabilità.” Quale messaggio ti piacerebbe arrivasse agli spettatori? “Spero che questo film porti a un dibattito che ci faccia capire che siamo tutti sulla stessa barca, non siamo soli. C'è una battuta in The Son molto significativa: “L'amore non è sufficiente”. Tutte le persone che fanno parte di questo film amano tantissimo ma si sentono incapaci. Tutti noi abbiamo bisogno di una comunità, di persone che ci influenzino e ci guidino.” Il film mostra anche quanto possiamo essere isolati quando parliamo di malattie mentali… “C'è vergogna, c'è senso di colpa, c'è un intenso desiderio di aggiustare le cose. Ma rendersi conto della nostra impotenza, ammetterla in un certo senso, può portare alla possibilità di essere davvero in grado di comprendere ed empatizzare con le persone intorno a noi, di camminare nei loro panni e di essere veramente onesti.” In una scena del film improvvisi dei passi di danza: è stata una tua idea? “E’ stata una scena di cui abbiamo parlato molto con il regista e Vanessa Kirby. Quando ho raccontato a casa che avrei dovuto ballare mia figlia mi ha risposto: “Non ti preoccupare” (ride, ndr).”

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