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Gennaro Iezzo

di Agnese Serrapica

Numero 211 - Giugno 2020

L'indimenticato portiere di tanti club professionistici fa il punto su questa stagione che si avvia alla conclusione, e sul possibile futuro del gioco più bello del mondo


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Un portiere di talento, un campione tra i pali, ma soprattutto un giocatore che ha realizzato un sogno senza prezzo: indossare la maglia della propria squadra del cuore. E per farlo rinuncia a grandi ingaggi, lascia la Serie A per andare nel Napoli in Serie C1. Un uomo che ancora si emoziona a raccontare l’ingresso al San Paolo con il cuore a mille e quella maglia che è una seconda pelle.-taglio- Oggi è un allenatore che insegna ai suoi ragazzi ad impegnarsi, a non mollare mai, ma anche a divertirsi. È il primo a considerare lo sport come veicolo di aggregazione e socializzazione, capace di distogliere dagli eccessi del web e dalle cattive compagnie. Sempre in prima linea nelle iniziative benefiche a favore dei più giovani, riesce a trasmettere, con le parole e con l’esempio, i valori sani e positivi dello sport. La sua vita di ieri e di oggi, i suoi ricordi e le sue emozioni, cosa ne sarà del calcio. Di questo e di tanto altro parliamo con Gennaro Iezzo, “il napoletano di Castellammare di Stabia”, come ama definirsi lui stesso. Come hai vissuto, da sportivo e allenatore, questo fermo di due mesi? “Come tutti gli italiani sono rimasto in casa praticamente per tutto il tempo. È stata dura, perché sono abituato a stare all’aria aperta, ma tra collegamenti e allenamenti via web ho cercato di tirare su il morale ai miei ragazzi. Secondo me, quelli che hanno sofferto di più il momento e la situazione, senza uscire e senza fare sport, sono stati proprio i più piccoli.” E lì è venuto fuori il tuo ruolo di motivatore. “È vero, oltre che un istruttore e un allenatore, sono un motivatore, sempre presente per tutti i miei ragazzi, soprattutto nei momenti di difficoltà.” Cosa ne sarà del calcio dopo questo periodo? “Penso che dobbiamo aspettare una cura, e comunque almeno all’inizio non sarà lo stesso calcio di prima. Quelli che scendono in campo sono prima di tutto persone, con sentimenti, preoccupazioni e paure. Penso che sia fondamentale la prudenza, bisogna necessariamente essere cauti. E soprattutto serve organizzazione, le squadre devono essere protette, devono poter giocare senza correre alcun rischio. Tutto questo non è semplice, perché al di là dei giocatori c’è tanta gente che ruota intorno al mondo del calcio. Forse una ripresa sarà possibile per la massima serie, ma per le altre categorie diventa più complicato, e la conseguenza potrebbe essere una serie infinita di cause nei tribunali. Prendiamo l’esempio della Germania, che ha chiuso dopo ed è ripartita prima, ma lì la gestione nazionale è stata completamente diversa. Infine, i calciatori dovrebbero giocare in uno stadio senza spettatori, se ci pensi è surreale, forse è umanamente la cosa peggiore.” Tornando al passato e a quando gli stadi erano pieni ed urlavano il tuo nome, qual è stato il momento più bello della tua carriera calcistica? “Sicuramente l’approdo al Napoli, la squadra per cui tifo da quando sono nato. Indossare quella maglia per me è stata la realizzazione di un sogno! Ricordo ancor l’emozione dell’ingrasso al San Paolo, indimenticabile, talmente forte che risulta difficile perfino spiegarla. In quel periodo, avevo diversi club importanti che mi volevano in squadra, il mio procuratore mi consigliava di accettare perché sarei salito di due categorie e avrei guadagnato cinque volte tanto. Ma i soldi non sono mai stati la mia priorità, così accettai la proposta del Napoli. Ho scelto col cuore e si è rivelata una scelta vincente! Un napoletano capitano del Napoli. Più orgoglio o responsabilità? “Napoli è una piazza esigente, sapevo perfettamente che da napoletano mi sarei portato addosso il peso della città, ma avevo l’esperienza giusta. Naturalmente sentivo tutta la responsabilità,ma possedevo la capacità di gestirla. Con i tifosi è stato amore a prima vista, fortunatamente ricambiato. -taglio2-I ricordi legati al rito scaramantico dei tre saltelli tra i pali e il mio nome urlato nella curva ancora oggi mi regalano un’emozione ineguagliabile.” È vero che il portiere è un po’ il “regista” della squadra? “Il portiere ha una veduta d’insieme, riesce osservare tutto mentre gli altri sono attratti dalla palla. Lo dico sempre ai miei ragazzi: il portiere deve essere bravo tra i pali, e deve essere ancora più bravo a dire la parola giusta al momento giusto.” Quale compagno di squadra ricordi con più affetto? “Sono sempre andato d’accordo con tutti, fa parte del mio carattere essere una persona socievole. Ricordo con affetto colleghi come Grava e Calaiò, ma potrei farti decine di nomi. Con loro continuiamo a sentirci. La verità è che quando stai bene in un gruppo, quel gruppo diventa una specie di famiglia. Nonostante sia trascorso del tempo, quando ci incontriamo è sempre una festa.” Da giocatore ad allenatore, oggi ti dedichi alle giovani generazioni. “Sono un allenatore professionista, ho frequentato la scuola di Coverciano. Gestisco una scuola calcio, la Stabia Academy, sono supervisore in altre scuole calcio e opinionista in tv. Formare i giovani è impegnativo, ma mi riempie di soddisfazioni.” Cosa consigli ai genitori e ai ragazzi che si rivolgono a te? “Molti genitori vogliono sapere da me se i propri figli diventeranno dei grandi campioni, e io rispondo sempre che se lo sapessi sarei un veggente! Mi occupo anche di bambini che danno i primi calci al pallone già a cinque anni, per questo ai genitori dico sempre di lasciarli liberi di divertirsi al campetto. Devono pensare a stare bene. Alla fine di ogni allenamento chiedo sempre ai ragazzi se si sono divertiti, il nostro obiettivo è quello di migliorarli, farli socializzare e per distogliere l’attenzione dal web o da cattivi contesti. Le percentuali dicono che forse solo 1 su 1 milione arriva in Serie A. Naturalmente, alcuni sono più talentuosi e hanno una maggiore attitudine, altri meno, ma a noi non interessa. Ci sono per carità anche le eccezioni, come i gemelli Marco e Francesco Fiore, che dalla mia scuola calcio sono arrivati al Barcellona.” Senti di dover ringraziare qualcuno? “La mia famiglia, mia moglie e i miei figli. A livello professionale, devo tutto ad Ernesto Ferrara, il mio preparatore calcistico, lo stesso di Antonio Mirante e dei fratelli Donnarumma. È grazie a lui se abbiamo realizzato il sogno della serie A. Allenatori del suo stampo non esistono più: aveva conoscenze, semplicità e i consigli giusti. È stato come un padre, mi ha insegnato tutto quello che so, ha sempre creduto in me. Per lui diventavamo figli, ci proteggeva e ci seguiva anche quando avevamo ormai spiccato il volo.” Hai un sogno nel cassetto? “Vorrei allenare un club importante. Studio tutti giorni per arrivare a questo, faccio tesoro delle esperienze dei miei allenatori, per imparare e crescere sempre di più. E poi ho un bel progetto da portare avanti. Prima della pandemia, ero impegnato nell’organizzazione di una bellissima iniziativa di solidarietà, la manifestazione a scopo benefico ‘Quando i bambini fanno… GOAL!’, a favore del Reparto di Pediatria dell’Ospedale ‘San Leonardo’ di Castellammare di Stabia. Si tratta un grande evento firmato GIVOVA, Nazionale Italiana Cantanti e Campus3S, ma è solo rimandato, in attesa di poter giocare tutti insieme la partita della vittoria.”





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