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Due maestri a confronto

di Maresa Galli

Numero 245 - Novembre 2023

In occasione del Campania Libri Festival Pupi Avati e Mario Martone ripercorrono la loro carriera, tra ricordi e prime volte


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Al “Campania Libri Festival”, che si è svolto dal 5 all’8 ottobre a Palazzo Reale, record di pubblico e dibattiti con autori ed editori, riscontro brillante per il ciclo di incontri “Scrivere il cinema”, a cura di Titta Fiore, giornalista, scrittrice, presidente della Fondazione Film Commission Campania. Tanti studenti attendevano Pupi Avati, che ha dialogato con Titta Fiore ripercorrendo la sua carriera artistica, la sua vita. -taglio- Il maestro del cinema, reduce dal successo del suo ultimo film, “Quattordicesima domenica del tempo ordinario”, ricorda la sua grande passione di gioventù: il jazz. “Il mio sogno era diventare un grande clarinettista jazz. Ma un giorno nella nostra orchestra arrivò Lucio Dalla. Agli inizi nessuno immaginava il talento a 360° di Lucio, senza studi alle spalle, dal linguaggio jazz moderno. Esistono musicisti che nascono già col sapere, telepatici, che assorbono il sapere del loro tempo. Con la band di Lucio facevamo tournée in tutta Europa. Non avevo il talento per fare il musicista. A un certo punto ho anche pensato di ucciderlo, buttandolo giù dalla Sagrada Familia di Barcellona…. Era un genio”. Per quanto attiene alla scrittura, il celebre regista dichiara di scrivere ciò che gli pare, quando gli pare. Ricorda anche che lavorare ad un film significa tenere anche conto del budget nel quale rientrare. Lo sceneggiatore non ha la libertà del romanziere. Avati consiglia ai giovani di trovare il proprio talento, li esorta ad avere coraggio, nonostante facciano loro pensare di non avere sogni. “Io ho fatto 54 film – racconta – ero un venditore di surgelati, con famiglia. Mi sono accadute cose meravigliose perché ci ho creduto”. Strappa sorrisi raccontando che i giovani della sua epoca erano brutti, specie le ragazze, anche se lui sposò la più bella ragazza di Bologna. Parla del “gotico padano”, del film al quale sta lavorando, dell’influenza che ha avuto su di lui Fellini: “mi sono avvicinato al mondo del cinema a 26 anni quando ho visto per la prima volta “Otto e mezzo”. È il più bel film sul cinema che si possa vedere e che consiglio a tutti”. Ricorda l’incontro con Pasolini per il quale scrisse la sceneggiatura di “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, in collaborazione con Sergio Citti. Racconta il suo sguardo inedito su “Dante” ragazzo, che si innamora di Beatrice, un film tenero e poetico. Ma, soprattutto, racconta il suo rapporto appassionato con la scrittura. E confida ai giovani: “il segreto di una longevità professionale è nell’insoddisfazione, nel credere di non aver ancora fatto il film della tua vita!”. Rivela ai ragazzi che legge la vita come un’ellisse composta di vari quarti, e lui, ormai proiettato nell’ultimo quarto, quello della vecchiaia, torna alla nostalgia dell’infanzia, al calore della famiglia che lo attende per cena.

Altra preziosa, intima conversazione è quella con Mario Martone e con la moglie Ippolita DI Maio, storica dell’arte, uniti nella vita e nel lavoro. La loro scrittura a due voci va dai classici al contemporaneo, rendendo unici i loro film: “Il giovane favoloso”, “Capri Revolution”, “Il sindaco del Rione Sanità”, “Qui rido io”, “Nostalgia”,-taglio2- che ha rappresentato l’Italia nella corsa agli Oscar del 2023. “Sono un autodidatta, non ho fatto corsi di scrittura per il cinema e anche Ippolita non ha studiato sceneggiatura - racconta il regista - noi siamo creatori del nostro modo di lavorare”. I due autori vivono e lavorano in perfetta sintonia. Quando Martone si cimenta con un film sull’ ‘800, De Majo ne cura la parte iconografica, studiosa che fa apprezzare al regista la musica di Wagner. “Se mi viene un’idea per un film – racconta Di Majo – penso sempre e subito se è una cosa che potrebbe essere nelle corde di Mario”. “Oggi le scelte di carattere emotivo dei miei film – prosegue Martone – spesso dipendono da lei. C’è una scena in “Nostalgia” in cui i due protagonisti, Felice ed Oreste, girano tra i vicoli della Sanità in motocicletta. Nel romanzo di Ermanno Rea, da cui è tratto il film, Felice è solo. L’intuizione di raccontare l’amicizia tra i due in quel modo è di Ippolita”. Martone, a chi gli ricorda che un tempo faceva teatro sperimentale, che c’è tanta sperimentazione e temerarietà anche nel mettere in scena le “Operette morali” di Leopardi, al teatro Gobetti di Torino, affrontando i dialoghi del poeta di Recanati. Il cineasta parla di preziosi incontri legati alla scrittura: quello con Fabrizia Ramondino, con “Morte di un matematico napoletano”, quello con Elena Ferrante, allora quasi sconosciuta, dal cui romanzo “L’amore molesto” trasse il suo secondo film, quello con il suo montatore, Jacopo Quadri, quello con grandi attori scelti per i suoi film: Elio Germano, Tony Servillo, Pierfrancesco Favino. Titta Fiore chiede ad Ippolita se ha pensato di dedicarsi ad un progetto che non coinvolga Mario e lei risponde: “No, anzi. Ho scritto un adattamento de “Il filo di mezzogiorno” di Goliarda Sapienza. Ho scritto i dialoghi per Donatella Finocchiaro. Ho fatto leggere il testo a Mario, pensando che non potesse essere un progetto per lui che, invece, mi ha detto: se non vuoi realizzarlo da sola, vorrei farlo io”. Di Majo segue tutte le fasi di lavorazione dei film scritti col marito, tranne il montaggio che trova un po’ noioso. Intanto lavorano ad un film sulla vita di Goliarda Sapienza. “Il mio cinema è impuro – conclude il cineasta – fatto di contaminazioni; non sono nato nella purezza del teatro e del cinema, sono ignorante ma curioso e mi scoccia fare le stesse cose. La sceneggiatura, oltre che scrittura, è una visione”.





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