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Cuore rossonero

di Paolo Carotenuto

Numero 193 - Novembre 2018

L’ex centrocampista del Milan, oggi telecronista di sky, si racconta in questa intervista: dall’addio al calcio al mondo della televisione


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È una delle bandiere del mondo del calcio, e in particolare di uno dei club più importanti: il Milan. Massimo Ambrosini ha dedicato la sua intera vita al calcio, superando tante difficoltà e impegnandosi intensamente per realizzare quello che era il suo sogno, diventare un giocatore professionista. Durante la sua carriera ha vinto ben 12 trofei, tra cui ricordiamo due Champions League e quattro Campionati italiani, che lo hanno reso uno dei centrocampisti italiani più forti in circolazione in quegli anni. Dalle prime esperienze in panchina, fino alla consegna della fascia di capitano del Milan, noi di Albatros abbiamo ripercorso insieme ad Ambrosini i momenti salienti della sua vita fino ad oggi.

Partiamo dall’inizio, quando è cominciato il tuo percorso sportivo?

“Ho iniziato a giocare a calcio da piccolissimo, la mia prima squadra è stata l’Adriatico, una società della città, anche se la maggior parte del tempo la passavo al campetto della parrocchia del Cristo Re. Era praticamente a 200 metri da casa mia e a Pesaro è un posto sacro per il calcio di strada. Ci giocavano personaggi che poi diventavano leggende, tu andavi lì a guardare i più grandi giocare e imparavi le prime regole di sopravvivenza.”

È vero che hai giocato anche a basket? -taglio- “Sì, ci ho giocato anche a basket. La storia di Ambrosini mancato cestista, però, è una favola. Ci hanno ricamato molto su i giornalisti... Per me la pallacanestro non è mai stata una reale alternativa al calcio.”

All’inizio, però, hai faticato a trovare il tuo spazio...

“Sì, come spesso accade c’erano tanti ragazzi molto più talentuosi di me quindi le mie partite le guardavo tutte dalla panchina. Si può dire che il primo anno da ‘professionista’ non ho praticamente mai giocato. Poi fui anche tagliato fuori dalla finale di un torneo, così dissi a miei volevo tornare nell’Adriatico e loro mi hanno fatto un discorso che all’epoca mi sembrò di quelli esistenziali: ‘Massimo fai come vuoi ma secondo noi non si molla alla prima difficoltà. Prova anche l’anno prossimo, se poi continui a non essere felice, allora lasci’. Ho pensato molto a quelle parole, ho deciso di continuare e l’anno dopo finalmente c’è stata la svolta.”

Sei stato ingaggiato dal Milan, cosa ricordi del tuo primo giorno?

“Il primo giorno a Milanello sei a metà tra il sogno e la realtà, mi sentivo in uno stato di alienazione che non passava nemmeno dopo i primi allenamenti. Accanto a dei giocatori come quelli, mi sentivo ancora il ragazzino del Cristo Re. Per esempio Baresi, sembrava circondato da un’aura di autorevolezza, rispetto, classe. Ero in soggezione costante quando c’era lui. Gli acquisti principali di quella sessione erano stati Baggio e Weah, per farti capire con chi mi sono ritrovato a condividere lo spogliatoio! Nel mio ruolo c’erano Desailly e Albertini. Col tempo sono poi riuscito ad ambientarmi, anche grazie all’aiuto di Demetrio, col quale ho costruito un bellissimo rapporto.”

Dopo quanto hai sentito di essere un rossonero?

“Il senso d’appartenenza al Milan lo crea anche Milanello. Non è una suggestione dire che la casetta gialla che vedi entrando, gli spogliatoi, i campi, i corridoi, rimandano alla memoria tutti quelli che sono passati di lì. C’è un alone di gloria e vivere questa sensazione ogni giorno per tanti anni, fa crescere in te una forma di rispetto e di responsabilità nei confronti di quei colori.”

Come mai ad un certo punto hai chiesto di cambiare squadra?

“Non è corretto dire che ho chiesto... semplicemente i primi anni al Milan mi stavano dando tanto a livello -taglio2- tecnico, ma giustamente avendo davanti a me dei giocatori che avevano alle spalle già tata esperienza, difficilmente riuscivo a trovare il mio spazio. Sentivo che dovevo mettere in pratica tutto ciò che stavo imparando così ho fatto capire le mie intenzioni. Avevo bisogno di vedere a che punto ero, e a Vicenza ho avuto la possibilità di farlo.”

Poi sei tornato al Milan, e insieme ai tuoi colleghi hai fatto la storia del club. Cosa ha significato per te ricevere la fascia di capitano?

"Ereditare la fascia è stato difficile. Venivo dopo Paolo e Franco, inevitabile avvertire un certo complesso di inferiorità. Avrei voluto parlarne con Paolo, ma poi alla fine non l’ho fatto. Non sapevo di preciso cosa chiedergli, né cosa lui avrebbe potuto dirmi. In ogni caso al di là dei consigli, sei tu che devi entrare nel ruolo come puoi, mettendoci quello che hai dentro".

Da quando hai smesso di giocare, come ti tieni in forma?

“Con la corsa. Corro con una certa frequenza, da quando ho smesso di giocare mi tengo in forma con il running, in generale mi piace l’idea di raggiungere degli obiettivi grazie alla fatica e all’allenamento. La corsa è perfetta anche per pensare, va bene non solo a livello fisico, ma anche mentale, è uno sforzo anche per la mente. Mi piace anche l’idea di tenere d’occhio il cronometro e provare a migliorare tempi e risultati. Ho partecipato anche ad alcune gare, tante 10k e ultimamente alcune mezze maratone, anche se è un tipo di sforzo diverso da quello del calcio, le 21k le preferisco, ma l’importante a mio parere è trovare una giusta via di mezzo tra fatica e divertimento”.

Un'altra veste in cui oggi ti vediamo è quella di commentatore sportivo per Sky, l’avresti mai immaginato?

“Sinceramente no, però sono una persona aperta a tante possibilità quindi quando me l’hanno proposto ho pensato: ‘perché no?’. Devo ammettere che all’inizio è stato complicato essere imparziale, ho dovuto inoltre imparare a raccontare la partita evitando quelli che possono essere i commenti spontanei che ti vengono, specialmente quando guardi la tua squadra del cuore. Ad oggi sono felice di poter vestire questo ruolo, mi permette di essere sempre nel mondo del calcio ed incontrare tanti vecchi e nuovi compagni di squadra.”


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