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Carmen Yanez

di Maresa Galli

Numero 187 - Aprile 2018

“Lucho” e “Pelusa” sembrano i nomi dei protagonisti di un romanzo: sono invece i soprannomi affettuosi con i quali si chiamano lo scrittore Luis Sepúlveda e sua moglie Carmen Yáñez, poetessa.


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“Lucho” e “Pelusa” sembrano i nomi dei protagonisti di un romanzo: sono invece i soprannomi affettuosi con i quali si chiamano lo scrittore Luis Sepúlveda e sua moglie Carmen Yáñez, poetessa. Nata nel ‘52 a Santiago del Cile, in una famiglia operaia, nel ‘75 viene fatta sparire e rinchiusa a Villa Grimaldi, il terribile centro di detenzione illegale dove venivano torturati e uccisi gli oppositori politici di Pinochet. Costretta alla clandestinità, sotto la protezione dell’Onu riesce a raggiungere la Svezia. -taglio- Qui in esilio inizierà la sua intensa attività letteraria. Negli anni ‘90, con il ritorno della democrazia in Cile, si trasferisce in Spagna, nelle Asturie, con il marito Luis. Scrive di lei Sepúlveda: “la poesia di Carmen ha la freschezza dei primi sguardi e la sensibilità di chi ha messo la vita sul tavolo da gioco e se l'è giocata senza esitazioni. Carmen poeta è anche la Carmen combattente, compagna, clandestina, la donna che sparì una notte, inghiottita dalla stupidità criminale delle uniformi e che riapparve tutta intera, pura e trasparente”. Suo riferimento morale, ispiratore, Pablo Neruda. Già si mette in luce con la prima raccolta di versi, “Cantos del camino”, dell’ ‘82, alla quale seguono “Paesaggio di luna fredda”, “Abitata dalla memoria”, “Terra di mele”, “Latitudine dei sogni”, “Cardellini della pioggia”. Nel suo nuovo libro di poesie, “Migrazioni”, dà voce ai migranti, “con tutta la passione che mi posso permettere”, dice. La scrittrice ha vissuto in prima persona il dolore della separazione dagli affetti, della perdita delle radici, l’ingiustizia, il sogno di una vita -taglio2- migliore per tutti. “Sono dell’idea, come mio marito Luis Sepúlveda, che prima siamo cittadini e dopo scrittori, e dobbiamo guardare il mondo che ci circonda. Siamo come uno specchio e dobbiamo riflettere la realtà. Con la mia poesia prendo una posizione, mi schiero, perché non voglio essere imparziale, voglio difendere ciò in cui credo e di cui sono convinta”. A chi le chiede se prova odio risponde che non ne può sentire perché “odiare è farsi male da soli. L’odio lo lascio a chi disprezza e odia gli esseri umani, a chi non è capace di amare, a chi non ha empatia verso i più deboli. Non odio, ma anche per un senso di giustizia sono stata sempre dalla parte di chi soffre denunciando. Si vive anche per questo, perché ci sono ferite aperte da sanare. Il mio linguaggio poetico è proprio questo, uno strumento per sistemare i conti con l’orrore con tutta la tenerezza della quale sono capace”. I suoi versi suonano come una “dolce vendetta”, un urlo che si staglia contro le ingiustizie, con quella solidarietà e compassione che sono sempre più pallide illusioni.





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