Pinot Noir, Négrette, Gamay, Chenin, Grolleau Gris e Chardonnay: questi i vitigni del Domaine Saint-Nicolas. Un’eccellenza francese ed una grande storia di famiglia
Sulla costa atlantica, tra le spiagge di Brem-sur-Mer e le paludi dell’Île d’Olonne, Thierry Michon ha costruito un percorso unico nel panorama del vino francese. -taglio-Pioniere della viticoltura biodinamica, è oggi considerato un punto di riferimento internazionale. Il Domaine Saint-Nicolas si estende su circa quaranta ettari di vigne che godono di un terroir e di un microclima eccezionali. Con determinazione e visione, Michon ha trasformato terreni sabbiosi e ventosi in vigneti che raccontano un legame profondo con la natura e con il mare. Qui, il suolo, le viti e l’uomo dialogano in armonia. I suoi vini: bianchi, rosati e rossi nascono da Pinot Noir, Négrette, Gamay, Chenin, Grolleau Gris e Chardonnay. Autentici, intensi e salini, hanno conquistato i palati più esigenti, dalle tavole europee fino al Giappone. Una storia familiare lunga tre generazioni, che oggi Thierry condivide con i suoi figli, Antoine e Mickaël. Lo incontro tra i filari, alcuni già in piena vendemmia. Più tardi, davanti a un calice nella boutique della cantina, parliamo di radici, scelte radicali e di un territorio che respira l’oceano. Come è nata la sua vocazione di viticoltore e la storia del Domaine Saint-Nicolas? «I miei nonni avevano una piccola fattoria in concessione e producevano latte. Mio padre, negli anni ’60, iniziò con l’orticoltura e poi si avvicinò alla viticoltura. Per quindici anni lavorò su terreni in affitto a Saint-Nicolas-de-Brem, finché ci trasferimmo all’Île d’Olonne. Lì, con i miei genitori e mio fratello, abbiamo costruito la nostra storia per oltre quarant’anni. Io ho iniziato prestissimo, praticamente da bambino: non avevo scelta, il vino era parte della mia vita. Era una necessità, ma soprattutto una passione. Una vera scelta di vita.» Ha adottato la biodinamica molto presto: cosa l’ha convinta a fare questa scelta? «Da ragazzo, un amico radioestesista mi introdusse ai metodi naturali di cura. Questo mi aprì gli occhi sul rapporto con la natura. Nel 1992 sentii parlare di biodinamica e l’anno dopo iniziai a praticarla. Fu una convinzione profonda, e non ho mai pensato di cambiare strada.» I suoi vigneti sono circondati dall’oceano, dalle paludi e dalla foresta: cosa apporta questo terroir ai vini? «Abbiamo la fortuna di essere in riva all’oceano. La presenza di sale nei suoli, che potrebbe sembrare un limite, è invece una peculiarità rara e preziosa. I venti marini portano salinità che ritroviamo nei vini: è ciò che i sommelier cercano e raccontano.-taglio2- Quando mio padre iniziò all’Île d’Olonne, fummo i primi a piantare pali e fili di ferro nelle vigne: prima le viti crescevano strisciando al suolo.» Se dovesse scegliere una sola annata per raccontare la sua tenuta, quale sarebbe? «Il nostro territorio era tradizionalmente vocato ai bianchi, i rossi non si sapevano produrre. Io invece ho sempre creduto nei rossi. L’annata Jacques è diventata il simbolo del Domaine: un Pinot Noir capace di evolvere magnificamente fino a vent’anni. È il vino che più mi rappresenta.» I suoi vini sono presenti nei migliori ristoranti del mondo: qual è il segreto del loro successo? «I grandi ristoranti cercano vini unici, capaci di raccontare un terroir e un microclima. Il nostro vino è questo: un vino da sommelier. Nessuno conosceva i vini della Vandea, oggi invece li esportiamo in tutto il mondo, da Honolulu al Giappone, passando per l’Italia. La differenza è che non produciamo vini standardizzati: ogni annata riflette il clima e il terroir, non una ricetta enologica. La Vandea è una regione turistica: molti clienti ci hanno scoperto venendo qui, e da lì la reputazione è cresciuta. La qualità è sempre stata il nostro biglietto da visita.» Oggi lavora con i suoi figli: come si organizza questa tradizione familiare? «Antoine è mio socio da oltre dodici anni e si occupa della vinificazione dei rossi. Mickaël invece segue la vigna e la parte cerealicola. Il Domaine oggi copre 70 ettari: oltre alla vite coltiviamo insalate, cereali, fieno e alleviamo animali. L’obiettivo è l’autosufficienza, riducendo al minimo gli scambi esterni.» Qual è il complimento che l’ha emozionata di più? «La settimana scorsa un cliente mi ha detto: “È il miglior vino che abbia mai bevuto nella mia vita”. Ma i complimenti che mi toccano di più sono quelli dei grandi ristoranti internazionali, che scelgono i nostri vini per la loro qualità. È un riconoscimento enorme. Il cammino è stato difficile, ma senza passione non sarebbe stato possibile.»