Tra rap, rock, posse e nuove tendenze, il fotografo Pino Miraglia, ideatore di “Napoli Cover”, racconta i protagonisti della musica e l’universo giovanile
Pino diversi anni sei il curatore del “Sabato della fotografia” alla “Sala Assoli” per diffondere la fotografia d’autore a Napoli, un grande progetto…-tagio-
“Uno delle mie esigenze è diffondere cultura tra le persone e, in particolar modo, tra i giovani. A tal proposito ho sempre ideato eventi che contemplassero la sinergia tra i vari linguaggi artistici. Uno di questo è il progetto “Movimenti per la fotografia”, iniziato al MAV di Ercolano nel 2011. In realtà, “Il Sabato della fotografia” è un segmento di Movimenti, ma anche un ripiego alla mancata realizzazione del festival della fotografia (per mancanza di contributi istituzionali). Feci un’anteprima nel 2012, disseminata tra il Pan, Villa Pignatelli, Museo di Capodimonte e il MAV. Il “Sabato” ha avuto varie location, il MAV, lo Spazio Comunale “Piazza Forcella”, lo spazio NEA... Poi, nel 2019, grazie al sostegno di “Casa del Contemporaneo” nella persona di Giovanni Petrone, sono approdato a Sala Assoli che, tra le altre cose, è il luogo dove mi sono formato teatralmente. “Casa del Contemporaneo” mi ha permesso di raggiungere una stabilità nella programmazione, pianificare una vera rassegna annuale con dei concept ben precisi ed un supporto organizzativo ed economico non indifferente. Abbiamo ricavato un piccolo ma dignitoso spazio espositivo, possiamo fare gli incontri con un serio approccio multimediale, contando su un alto supporto tecnologico. “Sala Assoli” è un luogo magico; la sua atavica vocazione è stata sempre quella di proporre innovazione e una varietà di linguaggi; il format del “Sabato della fotografia” e uno dei segmenti che arricchiscono questa programmazione sinergica.
Hai un profondo rapporto con il teatro, i suoi protagonisti, i grandi registi e attori: come nascono queste frequentazioni?
“Ho un profondo rapporto con il teatro perché ci lavoro da 40 anni. Ho cominciato a fare teatro nel 1984 con la cooperativa “Lanterna Magica” diretta da Francesco Silvestri. Tuttora continuo a lavorare in teatro nel quale ho ricoperto diversi ruoli: artistici, tecnici e organizzativi. La fotografia è arrivata nel 1989 come dimensione espressiva da coltivare in magnifica solitudine. Pur continuando a fare teatro, la macchina fotografica è stata sempre con me in qualunque situazione e questo mi ha permesso di essere testimone privilegiato di momenti inediti del “dietro le quinte”. Sul teatro ho un archivio considerevole e particolare, fatti di tantissimi momenti non ufficiali che spiegano bene tutto il processo creativo delle persone, di un allestimento o di una tournée teatrale”.
La tua vera anima è musicale, come dimostrano i tuoi scatti, le mostre musicali, le diverse copertine realizzate e il libro fotografico “Core e Lengua”, con Gaetano Massa: hai immortalato tanti rapper, da Rocco Hunt a Clementino fino alle crew delle periferie…
“Si, è vero, se dovessi stilare una classifica delle mie preferenze sui linguaggi artistici, la musica, e questa in relazione ai giovani, ricopre il primo posto in assoluto. Sai, devo gran parte della mia formazione spirituale alla musica. A 11 anni ho avuto la fortuna di ascoltare “Made in Japan” dei Deep Purple, “Middle” dei Pink Floyd e “Storia di un minuto” della PFM e il mondo mi si è rivelato! È stato l’accesso illuminante, per me scugnizzo, ad una dimensione condivisa con altri adolescenti che uscivano dalle dinamiche di quartiere per comprendere il senso della vita e delle lotte sociali che stavano cambiando i rapporti con gli adulti, i padri, le donne, le etnie a noi distanti. Di conseguenza, uno dei miei approcci alla fotografia non poteva essere che fotografare i protagonisti visti fino ad allora sulle pagine di “Ciao 2001”, “Rockstar” o “Musica Jazz”. L’inizio del mio lavoro come fotografo è coinciso con il movimento Posse italiano. C’era molto nell’aria; i centri sociali occupati, il movimento della Pantera, i 99 Posse, Assalti frontali, i CCCP, Daniele Sepe...Tutto questo movimento politico/musicale mi ha riportato alla mia adolescenza quando ho scoperto Edoardo Bennato, gli Area, gli Stormy Six, il Banco, Lolli… È stato come respirare lo stesso periodo ma con una dose di coscienza maggiore. Avevo un po’ abbandonato l’ascolto del pop/rock da anni per indirizzarmi verso uno suono più sperimentale e verso il jazz nordeuropeo ma i 99 Posse, Bandabardò, Lindo Ferretti, gli Alma, i Marlene Kuntz e i Subsonica hanno riacceso la fiamma. Quindi ho cominciato a frequentare e fotografare di più l’ambiente musicale. Ho collaborato per tre anni con l’Arci Napoli e pianificato una rassegna di mostre fotografiche inerenti la musica al Nottingh Hill. Poi, essendo un collezionista di vinile, ho ideato “Napoli Cover”, un evento che comprendeva la fiera del disco, talk, fans club e una mostra, “Dagli Showmen agli Almamegretta”, pensata andando a vedere i nomi dei fotografi napoletani sui credits dei dischi. Già conoscevo Fabio Donato per il quale avevo curato una piccola mostra su Luciano Cilio, ma la scoperta che esisteva un certo Umberto Telesco è stato determinante per ricostruire un periodo magnifico della musica napoletana e dare forma alla mostra. Lo dico senza presunzione, ma Napoli Cover è stata una delle scintille che ha riacceso l’interesse per il Neapolitan Power come filo conduttore del nuovo sound napoletano. Era il 1997, Federico Vacalebre fece un paginone che parlava della mostra sulle pagine de “Il Mattino” ed io e Umberto ci ritrovammo tutti i musicisti napoletani alla Stazione Marittima, compresi Renato Marengo, Michel Pergolani, Raffaele Cascone, Nicola Muccillo e tanti altri operatori del settore di quel tempo. Il sodalizio con il mondo della musica non si è mai fermato, ho lavorato 5 anni con la “Marocco Music” di Rocco Pasquariello e, in tandem con Patrizio Squeglia, abbiamo realizzato diverse copertine. Ho curato l'immagine fotografica per la Galli Strings per un periodo; -taglio2- collaborato con il Neapolis Rock Festival, il Pomigliano Jazz Festival, con il nascente Arenile di Bagnoli e i vari manager che gravitavano intorno, “Lo sguardo di Ulisse” e ancora adesso, sono il fotografo ufficiale del “Divino Jazz” e del festival “Ethnos”.
Hai intercettato/immortalato tutte le culture culturali e artistiche legate alla musica: quando hai incontrato il rap?
“Il rap puro l’ho incrociato nel vivo nel 1995 con il concerto a Napoli dei Public Enemy organizzato dall’Arci e quello napoletano nel 1996, prima assistendo alle ospitate di Speaker Cenzou ai concerti dei Posse e poi facendo un servizio fotografico per il Clan Vesuvio, (prima crew a realizzare un disco veramente hip hop - della crew facevano parte Lucariello, Ntò e Luchè). Conoscevo già la Famiglia perché gravitavano intorno all’agenzia di comunicazione Ogham con la quale collaboravo. A parte delle eccezioni, comunque legata alla posse (Neffa, Sangue Misto, Kaos) non ho mai creduto ad una affermazione del rap italiano...troppo immaturo, troppo imitativo dello star system americano, finché, nel 2004 mi chiama Lele Nitti e mi invita a vedere il concerto dei Co'Sang che presentavano il loro primo disco autoprodotto. Ecco, lì ho rivalutato il rap partenopeo e mi sono reso conto di come la lingua napoletana dà inevitabilmente quella marcia in più alla musica. Successivamente ho approfondito il discorso fotografico sul rap a Napoli che a parte Lucariello e i Co'Sang si era già però assopito, mentre al nord invece stava maturando a tal punto da essere già sistema (Club Dogo, Marracash, Fabri Fibra, un nuovo Neffa, Ensi ecc.). Ormai il genere aveva attecchito anche come rivalsa sociale; a Napoli le jam nei quartieri periferici si moltiplicavano e il territorio era invaso da writers e street artist. Da questo contesto underground vengono fuori Clementino e Rocco Hunt. Poi, dall’incontro con Gaetano Massa, giovane fotografo ed ex componente di una piccola crew di Casoria, è nato il libro “Core e lengua - il rap in Campania ed altre storie”, edito da Zona editore. Detto questo sulla fotografia musicale, in termini economici e di notorietà, a Napoli siamo ben lontani dagli standard del Nord Italia. Un fotografo, ma anche un grafico che si occupa e vive solo di musica, a Napoli non può essere realtà. Insomma, un Guido Harari del Sud è impossibile per le ovvie ragioni che tutti conosciamo.
Quanto conta la copertina nella storia della musica rock e non solo?
“Tantissimo, ma è vero: è una prerogativa esclusivamente della musica pop, rock e progressive ed è molto legata al vinile.
Spesso mediocri album sono famosi più per la copertina
La Hipgnosis di Storm Thorgerson ha fatto scuola. Per noi più attempati, la musica del disco è legata indissolubilmente all’immagine della copertina. Se non ricordi il titolo di “Atom Heart Mother” dei Pink Floyd, basta che dici "quello con la mucca", se non rammenti i Velvet basta dire "la banana di Warhol"; se dei Rolling Stones vuoi parlare di “Through the Past, Darkly” dici "il disco ottagonale". Erano anni di grande creatività ed innovazione. Tanti concorrevano al successo di un disco, il grafico, il fotografo, il bozzettista, chi pensava al lettering o al package se si voleva fare una cosa complicata. Era un rito comprare un disco e la copertina contribuiva enormemente al piacere rituale quando lo si ascoltava, magari con la stanza invasa dal fumo della marijuana che avevi piantato ai Camaldoli. Poche etichette di genere hanno avuto tanta attenzione alla copertina, forse la ECM che ha creato una sua poetica delicata e persistente. Poi con il cd questo vivere la copertina è andato scemando, troppo piccolo il formato, testi e credits solo con la lente di ingrandimento!”.
Da sempre attento al sociale, hai spesso contribuito a progetti di inclusione nella periferia di Napoli.
“Si, anche questo è un altro aspetto che lega il mio inizio in teatro, la fotografia, la musica e il sociale. Con “Lanterna Magica” lavoravamo molto nelle scuole e nei comuni periferici sull’inclusione attraverso il teatro ispirandoci alla metodologia di Scabia, Passatore e Lodi. Si chiamava “Animazione Teatrale”. Francesco Silvestri era bravissimo in questo, usavamo qualsiasi tecnica e materiale per raggiungere lo scopo, lui era un affabulatore speciale. Prima di entrare in compagnia lavoravo come maestro d’asilo in una scuola privata ed ho conosciuto Francesco perché mi ero iscritto ad un suo corso, appunto di Animazione Teatrale. Collaboro da anni con una cooperativa di Piscinola (La Gioiosa) che opera sulla dispersione scolastica, l’inclusione e la formazione. L’ultimo progetto ideato completamente da me per la Presidenza del Consiglio - Dipartimento Giovani, durato due anni, si chiamava “Periferia Giovane”. Comprendeva corsi di formazione di informatica e di fotografia, laboratori sulle 4 discipline dell’Hip Hop, (qui ho coinvolto Lucariello, DJ Uncino, ‘O Iank, Sha One, Speaker Cenzou, Donix e tanti altri), cineforum sulle tematiche giovanili ed eventi a Piscinola e Scampia. Abbiamo anche realizzato un cd con giovanissimi rapper e una rivista fotografica”.
Oggi che tutti diffondono la fotografia digitale e viviamo una costante macro esposizione sul web come possiamo tornare alla poesia della foto artigianale, unica e artistica? Tornare al passato è impossibile ma cosa c’è nel futuro?
“Io non sono un nostalgico. Le conquiste tecnologiche non te lo consentono e penso sia un bene. Il futuro ha sempre sorpreso, nel bene e nel male. I giovani devono vivere il proprio tempo e vivere le tecnologie ad essi adiacenti. Ciò non toglie che riscoprire il passato e l’artigianato è, comunque, una cosa bella, molti giovani sono innamorati del passato e coltivano l’analogico ma contemporaneamente non possono e non devono sottrarsi a questa nuova era tecnologica. A loro la capacità di comprenderla e di capirne la modalità corretta dell’uso”.