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Rabbia elettronica

di Teresa Pugliese

Numero 198 - Aprile 2019

Valeria Vaglio presenta il suo nuovo lavoro, un disco dalle sonorità diverse, parole nuove e tante emozioni


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È uscito da qualche settimana il nuovo album di Valeria Vaglio, “Mia”. Dopo cinque anni dall’ultimo lavoro discografico, l’artista barese propone una nuova veste di sé, tra sonorità diverse e testi molto personali. Il disco è stato anticipato dal singolo “Mi faccio un regalo”, il cui video è stato girato interamente a Parigi. La storia di questo lavoro nasce dall’esigenza di raccontare la rabbia che Valeria aveva dentro di sé. “Mia” è stato scritto in pochissimi mesi, ed ha aperto la strada a nuove sonorità, un cantautorato dalla musica elettronica.

Sono passati cinque anni dal tuo ultimo album, cosa è successo in tutto questo tempo?

“Avevo bisogno di nuovi stimoli che non fossero musicali, infatti mi sono laureata in Video Design presso lo Ied di Roma. Tutto è nato dal fatto che mi hanno chiesto di scrivere la colonna sonora di un film, e da lì ho capito che questo poteva essere un nuovo stimolo, e cioè di esercitare gli occhi oltre che le orecchie. -taglio-Ovviamente ho continuato a scrivere e a fare cose un po' più trasversali, nel senso che ho cercato di sperimentare, mi sentivo un più chiusa, avendo sempre fatto musica cantautorale ed acustica, allora ho cominciato a sentire il limite di questa cosa, e quindi a livello musicale ho pensato di fare un disco elettronico. Ho cercato le persone giuste per poter affrontare un lavoro del genere, che non è facile, e mi sono messa all’opera.”

È una scelta nuova questa della musica elettronica...

“Innanzitutto è molto più facile da suonare, noi dobbiamo fare anche i conti con il fatto che andiamo in giro a suonare per tante persone, e a livello acustico questo implica una difficoltà oggettiva, anche per i costi. Queste sono invece sonorità diverse, una cosa che non esulava dal poter sposare i testi, perché la musica elettronica di solito viene vista come qualcosa a livello lessicale molto scarna. La musica elettronica mi ha aiutato a coprire dei vuoti che tecnicamente ho e dare più risalto a quello che mi riesce meglio, cioè la scrittura.”

Hai dichiarato di essere molto arrabbiata quando hai iniziato a lavorare su questo progetto. Come hai canalizzato questo sentimento nella tua musica?

“C’è un picco che si raggiunge in qualsiasi tipo di sentimento, che poi è complicato trasmettere. Nella curva dell’emotività tendenzialmente quando comincia la discesa e tutto passa, io riesco a scrivere... che sia un discorso di rabbia, sofferenza, amore. Penso di essermi molto arrabbiata con me stessa, probabilmente ho consentito alle persone che mi circondavano di mettermi in difficoltà, o comunque di sottostare a dei giochi anche -taglio2-psicologici ai quali mi sarei potuta sottrarre. A volte la fragilità in determinati momenti della vita fa in modo che poi non riesci ad uscire da queste gabbie. La musica elettronica è stata una spinta per far uscire questo sentimento.”

Parliamo un po' del tuo primo singolo “Mi faccio un regalo”...

“ ‘Mi faccio un regalo’ l’ho scritta nel giorno del mio compleanno. Io tendenzialmente scrivo molto di stomaco, quindi quando devo dire qualcosa subito scrivo. Questa canzone è stata scritta in una sola giornata, il 28 giugno. È la storia di qualcuno che si rende conto che probabilmente, dopo avere provato delle sensazioni totalizzanti, fa un passo indietro. In realtà è quasi un sogno onirico, qualcosa che non si è mai realizzato, che non c’è mai stato.”

Hai frequentato il CET di Mogol, che esperienza è stata?

“Io parto dal presupposto che a scrivere non si impara, la tecnica è fondamentale, ma ci sono cose che non puoi imparare, la cosa che il CET ha messo in luce è il confronto, che è una cosa che manca, è difficile trovare tante persone nella stessa stanza che fanno la stessa cosa che fai tu e renderti conto che quello che tu non avresti mai pensato che avesse funzionato a livello metrico, di idee e di immagine, invece può andare bene. Io credo che manchi il confronto tra di noi, siamo così tanti che tendiamo a rinchiuderci nel nostro metro quadrato. La cosa bella del CET è che ognuno faceva sentire le proprie cose, ma nel rispetto della singolarità dell’artista.”





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