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Pupi Avati

Tra passato e futuro

di Paola Trotta

Numero 218 - Marzo 2021

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Ancora un capolavoro per il grande maestro, che con "Lei mi guarda ancora" continua a soprenderci e turbarci. Perché il cinema non è tutto amore e sorrisi...


L’amore, l’importanza dell’illusione, l’immortalità, i ricordi e il futuro della sala. Il regista Pupi Avati racconta e si racconta nel suo nuovo film di Sky Original “Lei mi parla ancora” dall’8 febbraio su Sky e Now Tv. Liberamente tratto dall’omonimo libro del 2014 di Nini Sgarbi (padre del noto critico d’arte Vittorio e la sorella Elisabetta) racconta la storia d’amore dei loro genitori,-taglio- Nino e Caterina: un amore lungo 65 anni e mai finito, neanche con la morte di lei. La figlia della coppia, nella speranza di aiutare il padre a superare la perdita dell’amata moglie, gli affianca un ghost writer per scrivere, attraverso i suoi ricordi, un libro sulla loro storia. Avati ha riunito un cast corale, da Renato Pozzetto, Fabrizio Gifuni, Stefania Sandrelli Lino Musella, Isabella Ragonese, Alessandro Haber Matteo Carlomagno, Chiara Caselli, Gioele Dix, Serena Grandi, Nicola Nocella. Anche se è la storia di un altro, per Avati è forse anche il film più personale. Sposato da oltre 55 anni con Nicola (nome maschile della moglie, così chiamata in onore del nonno), ci ha messo dentro tanto di loro, di quell’ amore in cui la parola “per sempre” aveva un valore contro la precarietà degli affetti di oggi che definisce “il male assoluto”. Torna dietro la macchina da presa a raccontare una bella storia d’amore della famiglia Sgarbi. Cosa l’ha colpita particolarmente? “Quel “per sempre”, una locuzione verbale che mi sembra abbiamo soppresso. Il film è ispirato al romanzo del 2014 di Giuseppe Sgarbi, padre di Elisabetta e Vittorio, per raccontare la storia d’amore, lunga sessantacinque anni, tra Nino e Caterina. Alla morte di lei, la figlia della coppia, nella speranza di aiutare il padre a superare la perdita dell’amata moglie, gli affianca un ghost writer per scrivere, attraverso i suoi ricordi, un libro sulla loro storia. È una storia esagerata. Sono voluto entrate in una dismisura sentimentale e affettiva che mi sembra oggi venga a mancare nella storia del nostro Paese e dell’Occidente. C’è una sorta di prudenza di esporsi, di aprirsi, di parlare della propria vita, della propria morte e del proprio amore alla luce di quel “per sempre”, parola che oggi pare essere scomparsa. E, invece, era fondamentale nei remoti anni ‘50, in cui non era ricorrente solo nelle canzoni ma anche in tutte le relazioni. Non solo quelle d’amore ma anche nell’amicizia, negli oggetti. E anche se la ragione richiamava al fatto che fosse impossibile esistesse il “per sempre”, per un attimo ci volevi credere e davi a quel momento della tua vita un significato che aveva a che fare con l’immortalità.” Anche lei è sposato da oltre 50 anni. Sa cos’è sulla sua pelle l’amore duraturo. Ha inserito atmosfere autobiografiche nel film? “Si. Alla fine della proiezione privata del film, i miei figli mi hanno detto: “Papà, Nino Sgarbi sei tu”. C’è molto di autobiografico in quello che fa Renato Pozzetto nel film. Volersi bene per tutta la vita, certo, non è facile però c’è sempre stata la forte convinzione che valesse la pena tenerlo in vita. È la durevolezza dell’amore. Uno dei momenti più felici è quando Fabrizio Gifuni legge una porzione del libro che riguarda la vecchiaia, quella stagione della vita in cui non ci si abbraccia più. Questa cosa non è nel romanzo ma è una considerazione di mia moglie. La parte autobiografica fa riferimento alla mia esperienza di uomo anziano con il terrore e la paura di dovere affrontare una situazione come quella di Nino. Situazione per la quale gli uomini non sono predisposti, a differenza della donna che ha la capacità di dare la vita e metabolizzare il dolore molto meglio degli uomini. Mi ha commosso vedere in lui ciò che sto per essere io, invecchiando si regredisce all’infanzia e si vuole credere ancora. Invece tutta la parte che riguarda Fabrizio, e quindi la modernità, l’ha scritta in parte mio figlio Tommaso. Mi sono affidato allo sguardo di un suo coetaneo.” Quali tratti emozionali comuni ha sentito con il protagonista? “Raccontando la storia d’amore di Giuseppe Sgarbi credo di aver raccontato una storia universale, anche la mia, nel momento in cui l’intero percorso è alle spalle e ti trovi all’improvviso solo. Quella compagna di viaggio con la quale hai spartito ogni istante, con la quale hai riso e urlato, che hai amato e odiato, quell’essere che ti ha visto in tutte le stagioni, al tuo meglio e al tuo peggio, quell’hard disk che contiene tutte le immagini della tua vita, se ne è andata. -taglio2- E allora il solo modo per non rassegnarsi alla sua assenza è nel continuare a parlarle, ricostruendo con sacralità ogni istante della loro unione. Al concludersi della storia abbiamo voluto, considerata la passione letteraria di chi è rimasto solo, evocare Pavese con una riflessione riguardante l’immortalità: ‘L’uomo mortale, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia’.” Che esperienza è stata il set di questo film carico di affettività e sentimento, per lei e il cast anche a livello personale? “L’affettività è il fil rouge di ogni inquadratura della storia. Credo che il film abbia avuto un effetto terapeutico su tutti. Ci ha migliorati. Quando è finito eravamo tutti un po’ cambiati.” Quale range di pubblico toccherà di più secondo lei? “Ho già avuto dei segnali di ritorno, straordinariamente e sorprendentemente positivi da chi lo ha visto. Da una storia d’amore così totalizzante chi può chiamarsi fuori? So benissimo che nella realtà è fortemente anacronistica. Ma quando uno conosce una ragazza, si innamora follemente e pensa “Voglio stare con lei per tutta la vita” mi sembra assolutamente normale. Sarebbe grave se non fosse così. La precarietà degli affetti è il male assoluto del nostro presente. Penso che questo film possa essere visto da tutti, dagli 8 ai 97 anni, l’età alla quale arriverò io (ride, oggi ne ha 82, ndr). Ha un range di 90 anni!” Perché oggi un amore così sembra impossibile da replicare secondo lei? “Non lo so, ma riproporlo è un mio dovere. Non potevo esimermi dal farlo. Sono arrivato a un’età in cui conosco la vita così bene e so l’importanza che ha avuto l’illudersi. Qualche anno fa scrissi una mia autobiografia, La grande invenzione. La vita trova un significato se mentiamo a noi stessi, se siamo capaci di illuderci. Quando insegno recitazione ai giovani attori, insegno loro a sognare, a non fare troppi conti con la ragionevolezza. Viviamo in un’epoca in cui si fanno solo somme e sottrazioni. Quando vendevo i bastoncini di pesce alla Standa di Bologna, pensavo che volevo diventare regista. Avrei potuto fare cinquantadue film se non avessi avuto la capacità di mentire a me stesso in modo così convincente?” (sorride, ndr) Come vede il futuro della sala? “Sarà molto complicato ricreare la necessità della sala cinematografica. Il periodo si sta prolungando. Avevo proposto di mettere in atto un’operazione che riproduca la nostalgia della sala, di com’era bello vedere i film al cinema. Alla gente mancano tante cose, dai ristoranti al mare. Ma grazie alle piattaforme il cinema ha continuato ad esserci e alla gente non manca. Invece bisogna riprodurre delle condizioni attraverso le quali le persone rivivano quel tipo di nostalgia.” Cosa le manca di più del presentare un film al cinema? “Mi manca l’idea di accompagnare il mio film in una sala gremita in cui alla fine si accendono le luci, tutti hanno le lacrime agli occhi e applaudono. Nell’attuale condizione di fruizione tutto questo non c’è. Ne sono grato, ma è evidente che la presenza, la magia della sala, dell’intimità della visione al buio senza distrazioni, immergersi nello schermo è un’altra cosa.” Ha parlato dell’immortalità di un certo tipo di amore, del cinema, e lei che rapporto ha col tempo che passa? “L’immortalità alla mia età, al di là del romanzo degli Sgarbi e di questo film, è un’idea che mi accompagna. Io mi sveglio la mattina convinto di avere 14 anni, ma dopo dieci secondi il mio corpo recalcitrante su tutto mi ricorda che ne ho ‘82. Pensare che ci sia qualcosa oltre quei titoli di coda che intravedo nella mia vita è legittimo.”

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