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Obsolenza o sostenibilità?

di Lucia de Cristofaro

Numero 236 - Dicembre-Gennaio 2023

“Obsolescenza pianificata” , come la chiama Serge Latouche, nel suo nuovo libro “ Usa e getta” , dove spiega perché gli oggetti che compriamo hanno una vita sempre più breve e come produrre e consumare meno non solo si può, ma si prospetta come l’unica scelta davvero economica


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Se si rompe uno schermo dell’IPAD non pensate che si possa sostituire, vi verrà proposto di cambiare tutto l’IPAD e comprarlo con lo sconto e così tanti oggetti della nostra quotidianità, che scopriamo di non poter essere riparati, perché le politiche sociali della grandi aziende sono quella di venderti un altro prodotto. Una sorta di “obsolescenza pianificata” , come la chiama Serge Latouche, nel suo nuovo libro “ Usa e getta” , -taglio- dove spiega perché gli oggetti che compriamo hanno una vita sempre più breve e come produrre e consumare meno non solo si può, ma si prospetta come l’unica scelta davvero economica. I tempi ci hanno insegnato che tutto ha una durata che arriva giusto alla garanzia. Una volta una lavatrice durava quindici anni e più, ora dopo ventiquattromesi ( quelli della garanzia) ci troviamo con fuoriuscite di acqua o con indumenti che non sono stati lavati come dovrebbero. Infatti, come afferma Latouche, non è un caso che gli oggetti sono progettati non per durare, ma per rompersi dopo un periodo calcolato di tempo. La “obsolescenza programmata” è il motore del consumismo ed è alla base dell’economia basata sulla crescita consumistica a tutti i costi. Edward Filene, magnate dei grandi magazzini di Boston, si chiedeva: “Come posso essere sicuro di avere un flusso permanente e crescente di consumatori?”. La risposta fu: “vendendo prodotti ‘usa e getta’”. Quello è stato il primo passo. Poi i produttori si inventano il concetto di obsolescenza “progressiva”: cambiare spesso modelli, fare invecchiare il prodotto, renderli sempre più “tecnologici” e inserire meccanismi sofisticati che si rompono facilmente. Per giungere alla fine del percorso alla “obsolescenza pianificata”, ovvero l’introduzione voluta di un difetto nei prodotti. Attenzione a non confonderla, poi, con l’ “obsolescenza simbolica”, figlia del declassamento prematuro di un oggetto da parte della pubblicità e della moda, infatti da quest’ultima ci si può anche difendere, rifiutando il declassamento, dalla prima purtroppo no, se il prodotto, soprattutto se tecnologico non funziona, e nessuno è disposto ad aggiustartelo, non hai nessuna alternativa, devi comprarne un altro. Sempre nel libro di Latouche abbiamo letto che negli anni Cinquanta domandarono al presidente Eisenhower cosa dovevano fare i cittadini per combattere la recessione. Lui rispose: “Comprare. Qualsiasi cosa”. Una pubblicità americana proponeva una formula contro la disoccupazione: “Un acquisto oggi, un disoccupato in meno domani. Potresti essere tu!”. Il giochino non poteva andare avanti all’infinito e infatti si è rotto. -taglio2- La ricetta per uscire dal circolo vizioso della crescita secondo Latouche è che il mondo si salverà solo se durevolezza dei prodotti, riparabilità, e riciclaggio prenderanno il posto dell’ “usa e getta”. Se le persone la smetteranno di farsi condizionare dall’ideologia dell’ “usa e getta”, ci sarà sempre un negozietto dove un riparatore sarà in grado di aggiustare un computer. E non abbiamo ancora sfiorato il campo della moda dove la velocità porta a produrre quasi il doppio dell’abbigliamento e degli accessori rispetto a prima del 2000; l’attenzione su questo fenomeno non manca, così come le critiche che l’industria della moda “usa e getta” riceve sempre più di frequente per la scarsa attenzione al problema ambientale. Secondo gli esperti, questa industria produce l’8-10% delle emissioni globali di CO2 (4-5 miliardi di tonnellate all’anno). Con 79 trilioni di litri di acqua usati ogni anno, questo settore risulta anche uno dei principali consumatori di acqua, ed è responsabile di circa il 20% dell’inquinamento idrico industriale dovuto al trattamento e alla tintura dei tessuti. Ma non basta, perché contribuisce a circa il 35% dell’inquinamento dei mari da microplastiche (si parla di 190.000 tonnellate all’anno) e produce enormi quantità di rifiuti tessili (oltre 92 milioni di tonnellate all’anno), gran parte dei quali finisce in discarica o viene bruciato, insieme al prodotto invenduto. Appare chiaro come il quadro che a qualcuno potrebbe sembrare esagerato di cui parla Latouche è invece di una lucida e significativa analisi della nostra contemporaneità. Risolvere il problema nell’immediato non è certo possibile, ma iniziare a aprirsi al concetto di sostenibilità, non cedendo alla tentazione pubblicitaria del nuovo articolo tecnologico su piazza, ad esempio, o del capo alla moda, potrebbe iniziare a fare la differenza. E penso ai nuovi trend che interessano: “riciclo”, “sharing” e “renting”, per iniziare a seguire la rotta controcorrente al consumismo e un giorno poter spezzare la catena della “Obsolenza pianificata”.





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