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Nuove insurrezioni

di Gaetano Magliano

Numero 236 - Dicembre-Gennaio 2023

Una band che vuol restare anonima, un singolo “inverosimile”, ed un disco pieno di significato dove tutti sono chiamati a fare la loro parte: questo e molto altro nel nuovo progetto discografico degli Escape to the Roof


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“Un biologo americano, negli anni ’90, fece degli studi su una colonia di polli. Era un esperimento che aveva il suo focus sulla produttività. Quindi, selezionando gli esemplari più produttivi, sperava di ricreare una colonia a parte di “superpolli”, così come li chiamò lui. -taglio- Quindi, di generazione in generazione, queste colonie crescevano e vivevano separatamente, e gli esemplari più produttivi della colonia base, passavano regolarmente nella colonia dei superpolli. Ecco, alla fine, dopo sei generazioni, il biologo scoprì sorprendentemente che gli esemplari cosiddetti “normali” erano belli paffutelli e rigogliosi, produttivi nella media, ma in salute, invece gli esemplari della colonia dei superpolli erano tutti morti, eccetto tre che avevano beccato a morte tutti gli altri: si erano autodistrutti per eccesso di competitività. Ecco in ‘Fried Blues Chicken’, che è di per sé un titolo che ricorda proprio una portata da fast food, il ragionamento parte proprio da questo esperimento per riflettere un attimo su chi vogliamo essere, e su cosa invece stiamo, o siamo già diventati, polli da batteria? O peggio già siamo belli che fritti e siamo serviti nei fast food della nostra personale esistenza?”. Da questo e molto altro parte l’avventura musicale degli Escape to the Roof, band che vuole rimanere anonima della sua composizione, per porre l’attenzione massima sulla musica come arte collettiva e sul suo messaggio. “Fried Blues Chicken” è il primo capitolo di un racconto surreale, inverosimile, unico nella sua complessità narrativa, che apre la strada al loro nuovo album omonimo, che riscopre il valore profondo delle sonorità proprie degli anni d’oro del rock, individuandoli come riferimento assoluto per “un atto di una vera insurrezione”. Iniziamo da ciò che non volete svelare: chi sono gli Escape to the Roof? “Eh, chi sono nessuno lo sa, e persino noi facciamo fatica a dirlo con certezza. Certamente non siamo giovanissimi esordienti, e anzi, qualcuno di noi se ne va a spasso tra i palchi di mezza Europa o scorrazza in lungo e in largo nel panorama musicale da vero highlander. Artisticamente, il proposito è quello di guardare al passato, a quello che abbiamo ereditato dai tempi d’oro del rock, per individuare soprattutto quello che riteniamo sia doveroso portare con noi nel prossimo futuro, per lo meno nel nostro personale futuro, e con gli strumenti artistici e stilistici del nostro vissuto, proiettarci verso una personale visione “nuova”, per quanto possibile.” Come mai l’idea di rimanere anonimi? “Viviamo nell’era del sovraffollamento e dell’esposizione esagerata d’immagini di ogni genere, e lo show business musicale non fa eccezione, e l’idea di rivolgere il nostro gesto artistico alla mercificazione tritatutto non ci allettava per niente. C’è una ressa, una saturazione d’immagini. Oggi, per stare dentro questo business bisogna essere fotogenici, supetelevisivi, sempre sorridenti, mai banali, mai politically incorrect. È un approccio che non ci appartiene. Per di più, pensiamo che un atto artistico dissociato dalla biografia del suo autore, aiuta l’utilizzatore a individualizzare meglio e a interpretare il messaggio per quello che è oggettivamente.” “Fried Blues Chicken” è il primo capitolo di un racconto surreale. Parlateci del vostro progetto. “Fried Blues Chicken vuole essere una riflessione sulla condizione contemporanea dell’uomo, e della vita che conduce, che è una vita dal ritmo quotidiano vertiginoso, che spaventa tanto è veloce. Ma, nonostante tutto, l’uomo contemporaneo nutre sempre delle aspettative, alimenta delle aspirazioni.-taglio2- ‘Fried Blues Chicken’, tuttavia, non è che il primo capitolo di questo racconto, che però non vogliamo certo anticipare. Possiamo solo dire che lo spettatore/lettore/ascoltatore dovrà fare la sua parte per incontrare il narratore. Non è una storia passiva, lo spettatore deve interagire, scavando tra i significati, mettendo insieme i vari tasselli sparpagliati qua e là, dedurre, supporre, esperire emozioni attraverso i suoni, i panorami sonori. Il narratore/autore si trova al di là di tutte queste cose, e nonostante il percorso creato per raggiungerlo sia disseminato di trappole narrative, depistaggi, volontari o involontari che siano, salti temporali avanti e indietro apparentemente senza motivo, egli è lì e si aspetta di essere raggiunto, nel luogo in cui autore e spettatore diventano quasi un’unica cosa tanto hanno condiviso strada facendo, e insieme possono liberarsi a una grassa risata, senza dovere aggiungere nient’altro, semplicemente, senza più ornamenti superflui. Alla fine il gioco di ogni narratore/autore è esattamente questo.”

Anche il luogo di nascita della band rimane anonimo, dunque private la geo localizzazione del suo ingombro negativo. Come mai questa scelta così radicale?

Beh, non sarei così duro, almeno non così tanto da ritenerla un ingombro negativo. Certo ci sono pro e contro, come per tutte le cose. Sono abituato per formazione e per esperienza, ma anche per scelta di cifra stilistica, a lavorare con ciò che ho a disposizione. È ovvio dunque, che, come per le influenze musicali dirette, anche il fatto di essere nato e cresciuto in un luogo, in una nazione piuttosto che in un’altra, porti con sé tutta una serie di connotazioni specifiche che, volenti o nolenti, hanno la loro ricaduta sull’argomentazione artistica. Giorgio Gaber cantava “io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”. È un verso che, gira e rigira, mi torna sempre più spesso in mente. Ma per quanto mi riguarda, non è una cosa polemica, o politica, è che le concezioni di nazionalità, patria, ma anche casa e famiglia, sono tutti concetti che ho scelto di sublimare e astrarre, o declinare in maniera del tutto personale, alle volte anche pagandone individualmente lo scotto a caro prezzo. Da qualche anno a questa parte, ho iniziato a osservare e studiare il cosmo con un interesse da mistico, con la dedizione dell’esploratore e la fascinazione del bambino in cerca di risposte. Mi aiuta a dare forma e misura a ciò che siamo e a ciò che ci succede. Voglio dire, rispetto al cosmo, in definitiva, siamo meno che merde di mosca, no? Quindi, conviene regolarsi di conseguenza. Ecco, mi sento cittadino del cosmo con la consapevolezza di essere meno di una merda di mosca. Alla luce di ciò, dove sei nato e cresciuto, che lingua parli, e persino dove stai andando perdono quella connotazione rilevante che di solito ha nella realtà del quotidiano, e assumono un significato del tutto differente, fecondo per nuove inclinazioni e declinazioni.





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