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Musica dell’anima

di Umberto Garberini

Numero 198 - Aprile 2019

Il pianoforte protagonista in due prestigiosi concerti al Teatro San Carlo e al Sannazaro


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Teatro di San Carlo splendido e luminoso più che mai, affollato di pubblico e studenti dei licei e conservatori musicali, per l’appuntamento sinfonico che ha visto il ritorno del pianista irlandese Barry Douglas, storica medaglia d'oro al Tchaikovsky International Piano Competition del 1986, e il debutto del quarantaduenne direttore francese Julien Masmondet, alla guida dell’orchestra del teatro. In prima parte hanno eseguito il Quarto Concerto per pianoforte e orchestra, op. 58, di Beethoven, nel suo sfavillante sol maggiore: dal suo esordio solistico, quasi in punta di piedi, a una trama musicale via via sempre più ricca e avvincente, fra temi eroici scanditi come fanfare e ampie digressioni melodiche, fino a culminare nelle grandiose cadenze pianistiche del primo e del terzo movimento. Il dialogo con l’orchestra - in questo caso particolarmente nutrita, con la sezione degli archi in bel rilievo - era coeso e spigliato, nel continuo ed entusiasmante scambio di ruoli, per un’intesa spontanea e un feeling a fior di pelle. -taglio-Tutto suspence e fremente attesa, invece, la flebile declamazione intonata del secondo movimento (Andante con moto), punteggiata da accenti gravi e solenni, come scolpiti nel suono, climax espressivo dell’intera composizione; per contrasto sopraggiungeva, quasi furtivamente, improvviso e leggero, il giocoso rondò finale (Vivace), una ventata di aria fresca, un ritorno fiducioso alla vita, nel turbinio di note volanti spinte in un crescendo irresistibile. Il crepuscolare Quarto Intermezzo op. 116 di Brahms, bis col quale si congedava Douglas, preparava il misterioso e fantastico mondo di una fiaba di Andersen, “Die Seejungfrau” (La Sirenetta), fonte d’ispirazione per il poema sinfonico di Alexander Zemlinsky (1871-1942): pittura sonora, descrittivismo e sottile rappresentazione psicologica, da una natura incantata e incontaminata, al desiderio e al dolore d’amore, che annienta e redime; densissimo e screziato il tessuto musicale, profondamente evocativo e onirico, impregnato di mito e spirito wagneriano. Successo personale di Masmondet, perfettamente a suo agio sul podio sancarliano, a lungo applaudito anche dagli stessi professori d’orchestra. In un mese di marzo dedicato tradizionalmente alla cura e all’incanto della femminilità, quale miglior occasione per festeggiare che il recital della celebre pianista giapponese Mitsuko Uchida, per la prima volta a Napoli, ospite prestigiosa dei concerti dell’Associazione Alessandro Scarlatti al Teatro Sannazaro. Insignita nel 2009 dell’onorificenza di Dame Commander -taglio2-of the Order of the British Empire, il suo nome è già quasi leggenda, esempio di eccellenza e rigore nella vita come nell’arte. Il “suo” Schubert è stato una folgorazione, un viaggio nell’anima di un compositore alla ricerca di un ideale di bellezza e perfezione che riscatti una realtà dura e incomprensibile. Un’affinità spirituale a lungo coltivata nel segno di una poetica austera e di un pianismo scevro da ogni esteriorità. Se la malinconia è il tratto prevalente di un’opera spesso lasciata incompiuta o allo stato di abbozzo, la sua aspirazione verso l’infinito ha lo slancio e la purezza dell’assoluto: così, le tre enigmatiche Sonate (D537, D840 e D960) inanellavano, nota dopo nota, meravigliosamente pensieri semplici e profondi, echi di danze ed estasi di gioia, sullo sfondo di quell’insolubile contraddizione, di quel senso di non-risolto, di indefinito e manchevole che contrasta e insidia drammaticamente la libertà della forma. Da qui quel lirismo inesauribile, “divina lungaggine” secondo Schumann, che prorompeva come un fiume in piena e dominava sovrano per intere pagine, fino ad avvolgersi su sé stesso, in una visionarietà timbrica ed espressiva raggelante e ipnotica. Una serata memorabile, per un ascolto intenso, impegnativo per qualunque pubblico, alla fine conquistato dalla grandezza e dalla passione dell’interprete, salutata tanto calorosamente da non potersi esimere dall’unico fuori programma possibile: il canto limpido e nostalgico del “nostro” Domenico Scarlatti.





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