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L’eleganza è una virtù rara

di Franco Salerno

Numero 189 - Giugno 2018

Breve viaggio nelle regole della buona educazione nella Roma classica


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Si va diffondendo, negli ultimi tempi, un neologismo interessante: “netiquette”. Essendo la fusione di due termini (“network” = rete” e “étiquette = galateo”) indica appunto il galateo in rete. In realtà, il concetto venne fissato, in una sua prima forma, nell'ottobre 1995 con il documento RFC 1855, che contiene tutte le regole ufficialmente riconosciute per un civile uso della rete. A chi non è capitato di vedersi arrivare un messaggio da una persona che non sentiva da tempo o con cui magari aveva litigato o interrotto i rapporti? O di ricevere una spam o una di quelle “catene” spesso inquietanti? Sono, questi, esempi di “cafoneria tecnologica”. -taglio- Per capire la necessità dell’eleganza e della raffinatezza, sarebbe opportuno andare a vedere come ci si comportava nel mondo dell’antica Roma. Intanto, basta prendere in considerazione la parola stessa “humanitas”, che significava cultura e civiltà. Un concetto fondamentale per la società romana, che fu codificato da Terenzio il quale scrisse nel suo “Eautontimoroùmenos” “Sono uomo: tutto quello che riguarda l’uomo io non lo considero estraneo a me”. Insomma, la gentilezza e l’eleganza facevano parte di una visione del mondo, per cui era necessario mettersi dal punto di vista dell’altro. L’educazione in genere e, in particolare, la buona educazione nell'antica Roma erano, nell’età repubblicana, compito del padre, così come riferisce Catone il Censore (234 a.C. circa–149 a.C.), il quale si vantava di avere insegnato ai propri figli non solo a leggere e scrivere, ma anche a nuotare, a combattere e a mettere in partica tutti i retti comportamenti. Questo ruolo nell'età imperiale passò alla madre, che assunse un vero e proprio ruolo di guida nei confronti dei figli almeno sino a quando questi erano ancora fanciulli. Il galateo romano si evidenziava soprattutto nei banchetti. Era abitudine comune (cosa che oggi non è molto diffusa) lavarsi le mani prima del -taglio2- pasto e offrire agli ospiti, soprattutto quelli di un certo livello sociale e culturale, discussioni filosofiche. Per garantire che non si cadesse negli eccessi, si sceglieva poi un “arbiter bibendi”, un “arbitro del bere” che stabiliva come allungare il vino per evitare che il convitato, in preda ai fumi dell’alcool, potesse porre in atto azioni disdicevoli. Un'altra caratteristica della buona educazione era l’insegnamento attraverso il buon esempio. Celebre è l’aforisma di Seneca, che nelle “Lettere a Lucilio” (6, 5) scriveva: “Lunga è la strada dei precetti, breve ed efficace quella degli esempi”, frase ripresa poi da Fedro e da Plinio nel “Panegirico a Traiano” e ridotta in una versione semplificata nell’adagio popolare “Imparare grazie agli esempi”. Tornando al concetto di “arbitro”, non possiamo non concludere con l’appellativo che fu dato a Petronio, autore del “Satyricon”, chiamato “arbitro di eleganza”: ma la sua vicenda fu drammatica perché fu costretto da Nerone a suicidarsi, cosa che egli fece, ma dopo aver denunciato nei suoi “codicilli” molti esempi di corruzione della società neroniana. La sua eleganza, tipica di un dandy dell’età imperiale, non servì a salvargli la vita, anzi spinse Nerone a dubitare della sua fedeltà.





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