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Jane Campion

di Tommaso Martinelli

Numero 230 - Maggio 2022

Premio Oscar per la Miglior Regia alla regista neozelandese, che con “Il potere del cane” torna ad Hollywood dalla porta principale, per un film ricco di temi, struggente e tensivo


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Tra le poche registe che si sono affermate a Hollywood abbattendo barriere all'apparenza insormontabili, c’è sicuramente Jane Campion che ha costruito la sua carriera superando ogni pregiudizio e conquistando la critica mondiale. Basti pensare che grazie al suo film più celebre – -taglio-“Lezioni di piano” del 1993 – è stata la prima e per quasi trent'anni unica donna nella storia a vincere la Palma d'oro al Festival di Cannes. A ben dodici anni dal suo ultimo film “Bright star” – a parte un’incursione nel mondo delle serie tv - la regista neozelandese è tornata alla regia con “Il potere del cane”, disponibile su Netflix, per il quale si è aggiudicata il Premio Oscar per la Miglior Regia, osannata dall’Academy, e completando il palmares ottenuto grazie a questa sfaccettata pellicola che l’ha vista insignita anche del Leone d'argento alla “Miglior regia” all’ultima Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, e di due Golden Globe, rispettivamente nella sezione “Miglior film drammatico” e “Miglior regista”. Dopo tanti ritratti a tutto tondo di donne fuori dalla norma, “Il potere del cane” - adattamento cinematografico dell'omonimo romanzo del 1967 di Thomas Savage - è il primo film di Jane Campion che vede come protagonista un uomo. Benedict Cumberbatch interpreta infatti il ruolo “sporco e cattivo” di Phil Burbank, un allevatore sadico e crudele che incute paura e rispetto alle persone attorno a lui. Quando il mite fratello George (Jesse Plemons) porta a casa la nuova moglie, la vedova Rose (interpretata da Kirsten Dunst), con il figlio di lei, Phil comincerà a tormentarli in una guerra senza sosta… Jane, ovviamente complimenti per l’Oscar, nuovo riconoscimento della tua arte e del tuo sguardo sempre unico e straordinario. Come nasce l’idea di questo film così pieno di tematiche che, sebbene ambientato nel 1925, possono benissimo descrivere anche il nostro mondo di oggi? “Quando ho letto il libro ho pensato fosse davvero bello: ha avuto un effetto fortissimo su di me. Ho sempre creduto nel mondo che Thomas Savage descrive a tal punto che nell’ultima parte del racconto ho viaggiato con la mia mente. È stato davvero emozionante. Una volta finito, nelle settimane seguenti, mi sono accorta che i temi del libro continuavano a ripresentarsi. Era una storia che lavorava sulla psiche, completamente diversa da quello che avevo letto negli ultimi anni. Così ho chiamato Roger (il produttore Roger Frappier che aveva acquisito i diritti del romanzo nel 2012, ndr) e abbiamo cercato di immaginare la possibilità di farne un film. E l’abbiamo realizzato, credo con un risultato che sia piaciuto non solo a noi…” Una storia di uomini: una novità per lei che è sempre stata molto legata al mondo delle donne… “In realtà sono una persona creativa. Quando ho scelto di raccontare questa storia mi è venuto naturale non calcolare la percentuale di genere presente. Ho semplicemente pensato che fosse una storia davvero bella. L’arte, in generale, credo dovrebbe esulare da questi discorsi, che sono più propri della politica e delle regole sociali. Noi facciamo cinema, fiction, raccontiamo storie, emozioni, situazioni… Nella vita vera non si sta sempre lì a contare quanti uomini e quante donne ci sono, e nei film la cosa migliore che si può fare è proprio rappresentare la vita vera, nel bene e nel male, con tutte le sue contraddizioni.” -taglio2- Nel film, infatti, c’è un unico personaggio femminile rappresentato dalla bravissima Kristen Dunst nei panni di Rose: cosa l’ha colpita di lei? “Come donna mi interessava molto il ruolo di Rose e ho voluto amplificarlo per quanto possibile, sempre rispettando l’idea del romanzo originale. Si tratta di una donna che viveva nel 1925 e di certo non era facile lamentarsi con il proprio marito del fratello che viveva con loro, a maggior ragione essendo lei l’ultima arrivata e con anche un figlio a carico. A causa della sua natura gentile e sensibile Rose pensava di essere l’obiettivo degli attacchi perché sbagliata e così la sua unica soluzione diventa l’alcol. Nel film credo sia un personaggio che segue quasi una storia a sé, come se vivesse tutta un’esistenza parallela a quella raccontata nel mainstream della trama. Proprio questo a mio avviso carica ancora di più di interesse il suo personaggio.” Come in tutte le sue opere, anche in questo film c’è un forte senso del luogo… “La storia è ambientata nel Montana del 1925 ma oggi sarebbe stato davvero difficile trovare un posto lì così abbandonato da permetterci quelle riprese. Abbiamo scelto di girare in una valle vuota e dimenticata della Nuova Zelanda: un luogo straordinario che ha fatto davvero innamorare tutto il cast. Sembrava di essere su una barca sperduta nell’Oceano e invece eravamo in un paesaggio terrestre, ma con elementi davvero fuori dal tempo. C’era così tanto ‘vuoto’ che il vento ci ha creato vari problemi, a volte era difficile anche stare in piedi (ride, ndr).” Sono passati 12 anni dal tuo film: in questo lasso di tempo ti sei avvicinata al mondo delle serie tv. Cosa ti ha spinto a tornare a dirigere un film? “Mi è piaciuto molto lavorare con le serie televisive, soprattutto con la scrittura e la regia che sono richieste per questo tipo di lavoro. Si possono creare mondi e tonalità nuove, con alcune che a mio avviso rasentano la perfezione. Poi Netflix mi ha permesso di scegliere che tipo di produzione fare: la loro disciplina e il rigore mi hanno dato la possibilità di tornare alla mia libertà espressiva attraverso il cinema, ed è soprattutto per questo che ho scelto di tornare.” Lei è stata la prima regista a vincere la Palma d'oro al Festival di Cannes del ‘93 con “Lezioni di piano”, facendo da apripista per un ruolo diverso delle donne all’interno del panorama cinematografico: a trent’anni di distanza, qual è secondo lei il ruolo della donna oggi nel cinema? “Sono tante le donne registe che si stanno facendo strada: basti pensare a Chloé Zhao che con ‘Nomadland’ ha vinto prima un Leone d'oro a Venezia 77 e poi l’Oscar a Los Angeles. Se si offre una possibilità a una donna non c’è niente che può fermarla. Detto questo, le statistiche però non sono a nostro favore. Non ci sono abbastanza voci di donne che raccontano come siamo realmente. Mi rincuora il fatto che oggi siano più coraggiose: hanno un maggiore supporto non solo dalle altre donne ma anche da parte degli uomini.”





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