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Il Buon Paese siamo noi

di Lucia de Cristofaro

Numero 185 - Febbraio 2018

Se avessimo la consapevolezza di essere la specie, quella umana, con l’assoluta responsabilità per il futuro del nostro pianeta, capiremmo che il problema più grande per il bene comune è l’assoluta mancanza di collaborazione organizzativa tra i popoli della Terra.


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Se avessimo la consapevolezza di essere la specie, quella umana, con l’assoluta responsabilità per il futuro del nostro pianeta, capiremmo che il problema più grande per il bene comune è l’assoluta mancanza di collaborazione organizzativa tra i popoli della Terra. Se problemi come il cambiamento climatico, le pandemie, le migrazioni, il terrorismo e il caos economico si stanno moltiplicando a causa della globalizzazione, significa che questa non è simbolo di miglioramento sinergico tra Nazioni, ma al contrario solo un caos, in cui cose buone e cattive, parimenti si diffondono senza alcun filtro. Infatti una persona con un raffreddore può causare una pandemia, un geek con un laptop può spegnere la rete elettrica, una cattiva banca può mettere in ginocchio il sistema finanziario globale, questa è la globalizzazione con cui ci dobbiamo confrontare nella nostra quotidianità. Immaginiamo invece alla possibilità che gli incontri ufficiali dei grandi della terra su tali tematiche, diventino l’incontro di tutti grandi e piccoli sulle stesse, con accordi e programmi condivisi, affinché questa nostra grande e meravigliosa “Navicella galattica”, chiamata Terra, possa continuare ad offrire le sue meraviglie naturali agli abitanti, animali, piante, umani, tutti uniti da un unico destino. -taglio- Di fatto se vogliamo far funzionare il mondo dobbiamo cooperare e collaborare molto più strettamente, questo è l’unico obiettivo che dovremmo avere, al di là di qualsiasi individualismo politico e nazionale. Ma perché il più delle volte non c’è alcuna cooperazione? Perché sette miliardi di persone, chiusi negli interessi nazionali, per diventare più ricchi, più felici, più forti, non riescono a guardare più in là del loro giardino e si interessano ai più deboli, ai più poveri, ai più vulnerabili solo se questi minacciano il loro benessere e il loro equilibrio quotidiano. Non dimenticare mai che nessuno individuo è un’isola, ma parte integrante e attiva di un arcipelago che si espande a qualsiasi latitudine, perché diventare una Good Country è possibile, e a spronarci non dovrebbe essere una classifica, come quella realizzata secondo il metodo Simon Anholt, ma la volontà di fare del bene e farlo indipendentemente da qualsiasi trofeo, da qualsiasi -taglio2- podio, semplicemente perché: essere solidali, partecipare alle missioni mediche, di pace e di qualsiasi aiuto possa essere necessario offrire, deve diventare la normalità. Al mondo non c’è bisogno di persone eccezionali, ma di persone normali che fanno la cosa giusta. “Il mondo è quel disastro che vedete non tanto per i guai combinati dai malfattori, ma per l’inerzia dei giusti che se ne accorgono e stanno lì a guardare…” – affermava Albert Einstein, un pensiero che ancora oggi, a distanza di più di sessant’anni, è purtroppo ancora attuale. Se iniziassimo ad essere meno inerti e a tentare di dare tutti insieme la giusta svolta al mondo, potremmo almeno dire che ce l’abbiamo messa tutta e chissà che non ci riusciamo davvero a reinventare una globalizzazione, non come caos, ma come un enorme caloroso e rassicurante abbraccio collettivo.





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