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Giorgio Borghetti

di Agnese Serrapica

Numero 222 - Luglio-Agosto 2021

Attore poliedrico, doppiatore affermato, talentuoso direttore del doppiaggio: un artista completo che ha iniziato da bambino a studiare “per crescere”, e ancora oggi è davvero inarrestabili


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È la voce italiana di personaggi di film, serie tv e cartoni animati cult per intere generazioni: da Elliot in E.T. a Benji in “Holly e Benji”, da David in “Beverly Hills 90210” a Peter Pan in “Le avventure di Peter Pan”. Il grande pubblico lo conosce per le sue interpretazioni in produzioni di grande successo come Incantesimo,-taglio- Carabinieri e Centovetrine, ma Giorgio Borghetti ha all’attivo il doppiaggio di film del calibro di “A Beautiful Mind”, “L'attimo fuggente”, “La verità è che non gli piaci abbastanza”, o “La storia infinita”, tanto per citare alcuni titoli. Da poco è rientrato nel cast di “Un posto al sole”, con gaudio e tripudio dei tantissimi fans della soap opera ambientata a Napoli. È impegnato nel sociale in tante iniziative benefiche che legano la solidarietà e lo sport, la sua grande passione. Una gran bella persona, Giorgio Borghetti: educato, elegante nei modi e gentile con le parole. Come e quando nasce la passione per il doppiaggio? “Ho iniziato a doppiare praticamente da bambino, avevo 10 anni. Per puro caso, le figlie di un’amica di mia nonna, che si occupavano di doppiaggio, si resero conto che ero sveglio e intonato, e mi proposero di provare. Quello del doppiatore è un mestiere che, generalmente, nasce e si eredita a livello familiare. Nessuno della mia famiglia se ne è mai occupato, quindi diciamo che ero praticamente un pezzo unico!” Hai iniziato presto a lavorare? “Sono entrato nel mondo del lavoro dalla porta principale interpretando Elliot in E.T. l'extra-terrestre. Dissero che avevo talento, e da allora ho sempre continuato a lavorare, e a studiare. Poi a 25 anni, dunque dopo 15 anni di attività, decisi che ero stufo e volevo quasi mollare per fare il maestro di sci.” Il maestro di sci? “Ebbene sì. Potremmo dire che sono uno sportivo prestato allo spettacolo, ho sempre amato lo sport, dal tennis al basket, dal calcio allo sci. Per mia fortuna un mio amico mi aprì gli occhi e mi fece comprendere che diventare maestro di sci era ben diverso che andare in vacanza a sciare, perché oltre a conoscere benissimo la montagna, devi avere forza, fisico e pazienza. E fu così che cambiai idea. A quel punto della mia vita ho incontrato Riccardo de Torrebruna, che è stato il mio mentore e maestro, con cui ho iniziato a studiare davvero per fare l’attore. In quel momento, è nato il binomio corpo e voce, e ho cominciato a fare fiction e musical.” E così sei diventato attore… “Un momento, manca ancora un passaggio! Non ero ancora del tutto consapevole, convinto. E poi proprio quel periodo ho incontrato la madre di mio figlio, Alessia, che è la sorella di Alberto Tomba, una maestra di sci. Era il mio ultimo tentativo di ritornare al mio grande amore per la montagna. Mi sarebbe tanto piaciuto rilevare uno chalet in montagna, ma è stato un sogno che alla fine non si è realizzato. Da allora mi sono concentrato a fare l’attore.” Quali sono i film o i ruoli a cui sei più legato? “Per un motivo o per l’altro, un attore è sempre legato ai suoi ruoli. Attorialmente parlando, un personaggio a cui sono particolarmente legato è il capitano Loya nella miniserie televisiva ‘La figlia di Elisa – Ritorno a Rivombrosa’.” Un ruolo da cattivo, quindi. “Il personaggio potrebbe sembrare cattivo, in realtà non è solo cattivo, è proprio spietato. Ti racconto un aneddoto. In quel periodo ero con Alessia e con Riccardo abbiamo studiato il personaggio per trovarne la chiave di lettura: è stato molto interessante, perché sono andato a scavare nelle parti più nascoste di me. A quel personaggio, a quello sguardo volevo trovare e dare un senso, che si racchiude nella frase “Io non faccio il cattivo, io sono cattivo”, perché fare il cattivo significa attenersi al modello, io ho scelto di essere, di “sentirmi” cattivo. Interpretare un simile personaggio presuppone una forte introspezione.” Hai dei modelli a cui ti sei ispirato? “Dal punto di vista cinematografico, sono cresciuto con i film di Sergio Leone, e da grande ho amato Clint Eastwood con la sua calma e la lentezza, ma quella lentezza densa e intensa. -taglio2-Come attori, amo particolarmente Gianmaria Volontè che ha creato personaggi unici nel genere. Se poi andiamo oltreoceano sicuramente Al Pacino e Robert De Niro. Come vedi dei grandissimi modelli!” Senti di dover ringraziare qualcuno? “Ringrazio innanzitutto mamma e papà, loro mi hanno voluto, che non è cosa da poco, e per tutta la vita hanno fatto sacrifici per me e per mio fratello. E poi sento di dover ringraziare me stesso, se sono dove sono è grazie al mio percorso di vita.” “Un posto al sole”: cosa ha significato per te questo ritorno e che legame hai con Napoli? “Il mio ruolo in “Un posto al sole” ha avuto una pausa lunga cinque mesi. Quando ho terminato le riprese non sapevo se sarei tornato e quindi ho salutato tutti. Salutato a malincuore, davvero. Ma quando sono rientrato sul set è come se quei mesi non fossero passati. Cosa dire di Napoli? È una città meravigliosa, se poi ti trovi in città e sei nel cast di “Un posto al sole” ancora di più! I partenopei hanno un calore tutto particolare, ti riconoscono (nonostante la mascherina!), ti fermano per strada e ti dimostrano l’affetto giorno dopo giorno. Quindi per certi versi è come se non fossi mai andato via.” Sei impegnato nel sociale in tante iniziative benefiche: quanto conta per te la solidarietà? “È fondamentale! Mi reputo una persona privilegiata e l’idea di essere considerato una bella persona mi gratifica. Una persona è bella attraverso le proprie azioni.” Quali sono le tue passioni? “Lo sport prima di tutto, da sempre e per sempre. Avrei desiderato fare dello sport il mio lavoro, mi fa stare bene. Adoro la musica, ma al contrario di tanti io non ascolto mai musica quando viaggio in macchina (e viaggio tanto!), invece penso molto, ragiono e guardo i panorami, i paesaggi che si susseguono. E poi amo il mare e la montagna, ma fondamentalmente perché amo la natura, che è sempre uno spettacolo meraviglioso.” Hai mai vissuto la tua bellezza come limite, cioè hai mai dovuto dimostrare di essere bravo oltre che bello? “Della bellezza non mi sono mai preoccupato, anche se questa consapevolezza l’ho avuta da adulto. Se devo parlare di penalizzazione, forse sono state penalizzato dalle mie origini, specialmente nel campo del doppiaggio, proprio per la questione dell’”impronta familiare” di cui parlavo prima. Ecco, questo rischiava di essere un limite. In realtà, il mio lavoro è come una grande torta, fatta di tanti parti, di tanti mestieri: nel mio caso doppiatore, attore di musical, fiction, cinema. In ciascuno si utilizza un linguaggio diverso. Comunque, a prescindere da tutto, odio qualunque tipo di pregiudizio.” Progetti per il futuro? “Innanzitutto ‘Capitan T, la condanna della consuetudine’, scritto, diretto e coprodotto da Andrea Walts, che narra la storia di Tommaso, un doppiatore cinquantenne che sogna di diventare attore, ma non ci riesce. È la storia di un uomo prigioniero della propria voce, che si sente intrappolato e senza più un’identità. Il protagonista presta la sua bellissima voce a un supereroe di fama mondiale: tutti lo amano per le sue note vocali, tutti vogliono sentire la sua voce, ma il suo più grande sogno è quello di metterci la faccia, nel vero senso della parola. Tutti i partecipanti al progetto sono doppiatori, quindi le voci finalmente – e paradossalmente - diventano volti. Per me questo è un vero e proprio viaggio nella voce, un omaggio a tutti i doppiatori. E poi c’è il film di Giovanni Soldati “L’uomo di fumo”, che racconta una grande storia d'amore nell'Italia di oggi, tra disagi sociali e intellettuali, in cui recito con la grande Stefania Sandrelli. Spero vada a Venezia, incrociamo le dita. Giorgio, ma alla fine hai deciso cosa vuoi fare da grande? “Mettiamola così: a dove andrò ci penserò domani.”





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