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Forza nelle difficoltà

di Antonino Ianniello

Numero 233 - Settembre 2022

La veloce escalation, nel jazz che conta, di Vittorio Cuculo, sassofonista di grande talento, capace di emergere anche in questi anni di emergenze, pandemie e teatri chiusi


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Vittorio Cuculo è un sassofonista romano di 29 anni che si laurea nell’ottobre di cinque anni fa alla ‘Siena Jazz University’. Ottiene, così, il ‘pass’ per il triennio di primo livello e nel marzo dello scorso anno, supera brillantemente il biennio jazz di secondo livello presso il ‘Conservatorio S. Cecilia di Roma’. Abbiamo scambiato con lui qualche battuta per conoscere meglio prima la persona e poi l’artista. -taglio- Sei un jazzista già affermato e molto gradito al popolo delle note nobili. Parlaci del tuo ultimo lavoro ‘Ensamble’ e della tua attrazione fatale per il jazz. «Grazie per le parole di stima! In casa è sempre circolata musica: dalla classica al jazz. Sono arrivato al sassofono passando per la batteria e le percussioni classiche. Ho, invero, anche studiato la marimba sino ad usare 2 battenti per ciascuna mano. Poi un giorno, da mio padre ho sentito in un disco il sax di Charlie Parker ed è stata quasi una folgorazione. Da quel momento in poi ho pensato solo al sax e a voler suonare jazz. Per quello che riguarda il mio secondo lavoro discografico, ‘Ensemble’, l’idea nasce un po’ per caso e un po’ perché riflettevo su quello che avevo fatto nel mio primo lavoro discografico ‘Between’. La sorte ha voluto che incontrassi una formazione di sassofoni, la ‘Filarmonica Sabina Foronovana’, con la quale ho avuto modo di registrare dal vivo, da solo senza il mio quartetto, una versione personalizzata dei classico ‘My Funny Valentine’. Da questo primo incontro è nata la spinta per una collaborazione più approfondita. Sentivo il bisogno di sviluppare la tematica dell’incontro e quindi si è fatto largo l’idea di un nuovo progetto artistico che mettesse in evidenza l’aspetto comunitario del fare musica, una dimensione che in ‘Between’ era stata indicata come dialogo tra le diverse generazioni, quella di giovani musicisti come me, Danilo Blaiotta ed Enrico Mianulli, con quella della storica generazione del Jazz di Gegè Munari. La presenza di musicisti variegati e diversi, di grande esperienza come Gegè Munari e di importanti arrangiatori come Roberto Spadoni, Mario Corvini, Massimo Valentini e Riccardo Nebbiosi, si è rivelata una carta vincente per la buona riuscita del lavoro.» Puoi dire cos’è che vuoi trasmettere all’ascoltatore con i tuo ultimo lavoro (Ensamble) e quali sono stati i passaggi fondamentali nel creare ‘Ensemble?
«Ensemble, come suggerisce la parola stessa, è caratterizzato da uno spirito di incontro, un incontro tra generazioni ed esperienze diverse, tra generi e stili musicali anch’essi diversi. Vuole mettere in risalto la dimensione del noi e cioè passa il concetto che la musica unisce e che si fa insieme. E mai come oggi, questo, è molto importante. -taglio2-Ensemble è anche l’idea che il senso di appartenenza ad un organismo più grande (in questo caso il Jazz), che deve essere recuperato e rinvigorito, dandogli acqua e linfa, così come si usa fare con una pianta, per farla crescere bella e robusta. È un lavoro discografico che vede il mio quartetto dialogare con la piccola orchestra di sassofoni della ‘Filarmonica Sabina Foronovana’. Un piccolo organico, ben amalgamato… sin dal primo tratto di strada fatto insieme e con il quale ci si confronta, ci si integra e ci si differenzia (quando occorre), da un organismo strumentale più grande. Anche la composizione del quartetto asseconda questo spirito di incontro, pur nella differenza delle singole esperienze maturate. Abbiamo lavorato confrontandoci continuamente: i brani scelti per il disco sono stati selezionati secondo il nostro gusto e in base anche alla particolare situazione sonora, ma comunque pensati e studiati in ogni dettaglio. Ne è venuta fuori una interazione particolare, ad oggi poco frequentata, con il quartetto, la voce e l’insieme di sassofoni.» Quali sono gli artisti cui hai fatto riferimento… quale sassofonista ti ha ispirato di più? «I musicisti che mi hanno influenzato maggiormente e ai quali guardo con più attenzione sono i grandi del jazz, dai quali non si può prescindere, e sassofonisti come Parker, Coltrane, Cannonball, sono per me punti di riferimento. Mentre tra i tanti più moderni, più vicini temporalmente a noi, Joshua Redman, Kenny Garrett. Tra gli italiani… senz’altro Stefano Di Battista.» Per il prossimo futuro hai in mente di girare in tournèe per proporre il tuo disco o magari qualcosa di nuovo? «Questo secondo lavoro discografico è stato proposto e suonato in varie occasioni, anche se con l’organico al completo solo nello storico ‘Alexanderplatz’. Mi fa piacere ricordare che sulla bontà del progetto, nelle note di copertina, si sono espresse figure importanti del Jazz, Paolo Fresu, Stefano Di Battista ed Eugenio Rubei. Progetti per il futuro ve ne sono, ho già in mente un’idea da sviluppare per un prossimo lavoro, il seme dell’idea è già presente, ci devo lavorare in termini di realizzazione pratica ed organizzativa.»





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