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Effetto Mozart

di Umberto Garberini

Numero 208 - Marzo 2020

Due splendidi concerti per la stagione musicale dell’Associazione Scarlatti al “Sannazaro” di Napoli


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Con un sontuoso concerto per due pianoforti si sono esibiti al teatro Sannazaro di Napoli Bruno Canino e Antonio Ballista, ospiti della stagione musicale a cura dell’Associazione Alessandro Scarlatti. Un duo storico e inossidabile, con oltre sessant’anni di carriera alle spalle, nato nelle aule del Conservatorio di Milano, che debuttò nel 1956: da allora, caso più unico che raro, suonano ininterrottamente insieme - anche a quattro mani - sui più prestigiosi palcoscenici del mondo.-taglio- Due maestri d’altri tempi, fra i più insigni, esempio alle nuove generazioni di una passione e una vivacità inesauribili, pari solo alla serietà e al reciproco rispetto professionale. Articolato e complesso il programma proposto, che muoveva dal classicismo viennese e dal romanticismo tedesco per approdare, in seconda parte, ai variegati scenari d’oltreoceano del primo Novecento. In apertura la grande Sonata in re maggiore K. 448 di Mozart, datata 1781, paradigmatica di un genere che lo stesso Canino, nel suo delizioso “Vademecum del pianista da camera”, considera a parte. La superba creazione mozartiana assurgeva sì a toni sinfonici per volumi e densità di discorso - con impervi passaggi tecnici da una parte e dall’altra, mettendo a dura prova la tentazione di primeggiare, ma scivolava via con la grazia e l’eleganza di un equilibrio perfetto, sereno e rasserenante, in pieno “effetto Mozart”, come attestano studi scientifici accreditati. Analogamente la successiva op. 56b di Brahms, composta nel 1873, dichiarava esplicitamente la propria derivazione e vocazione orchestrale: una serie di corpose e magmatiche variazioni su un tema erroneamente attribuito ad Haydn - in realtà un canto popolare, fra contrappunti e chiaroscuri tonali, dinamiche sbalzate che scolpivano come in un tripudio lo spazio sonoro.Salto a piè pari nel caldo esotismo e nella gioia di vivere col Danzon Cubano di Aaron Copland (1900-1990), esponente tipico del sincretismo americano, sulla scia inaugurata da George Gershwin: passata la fase strutturalista, qui il compositore - un’autentica autorità in vita, collezionando trenta lauree honoris causa! - si mostra sornione al limite del disimpegno, con un’invenzione musicale quasi frivola e ammiccante; per contro, introspettive e nostalgiche risuonavano le tre Romanze argentine di Carlos Gustavino (1912-2000), -taglio2-per uno spaccato latinoamericano a tutto tondo, suggellato dai ritmi di samba e dalla frenesia irresistibile e contagiosa di Scaramouche di Darius Milhaud (1892-1974). Un’esecuzione trascinante e liberatoria, cui seguiva, nel bis, un raffinatissimo Ravel a quattro mani, con il terzo movimento da “Ma Mère l’Oye” . Giovanissimi invece i protagonisti del Quartetto Van Kuijk, fondato a Parigi nel 2012, composto da Nicolas Van Kuijk e Sylvain Favre-Bulle ai violini, Emmanuel François alla viola e François Robin al violoncello, impostosi all’attenzione internazionale nel 2015 un vincendo un prestigioso concorso alla Wigmore Hall di Londra: affiatatissimi, ma dalla forte personalità individuale, messa al servizio di uno splendido suono d’insieme. Il Mozart d’esordio - l’ampio e denso Quartetto in re minore K. 421, impeccabile e tornito come un gioiello prezioso, - era reso con un’asciuttezza e un contrasto già quasi beethoveniani, fuori da schemi e convenzioni, segnando una svolta e un punto di non ritorno. Così, sperimentale e vertiginoso risultava il Quartetto n. 4 di Béla Bartòk, cinque movimenti vorticosi, composti nel 1928, che stemperavano in un linguaggio estremo e spettacolare elementi primordiali del folclore ungherese. Concludeva la locandina il Quartetto in fa maggiore di Ravel, opera di un ventottenne compositore con dedica al suo “caro maestro” Gabriel Fauré: dall’influenza di quest’ultimo, probabilmente, derivava la tendenza a smussare qui ogni asperità e a evitare un modernismo fine a se stesso: ma l’originalità e lo stile dell’autore era già inconfondibile e coniugava genialmente il valore oggettivo della chiarezza con una spregiudicata ricerca armonica, nonché una capacità evocativa ironica e sentimentale, tipicamente francese, come nel fuori programma “Les chemins de l’amour” di Francis Poulenc.





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