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BINTA DIAW

di Maresa Galli

Numero 239 - Aprile 2023

Una ricerca plastica di forme ed espressioni artistiche diventa, nella creatività di Binta Diaw, riflessione sui fenomeni del mondo contemporaneo


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Una ricerca plastica di forme ed espressioni artistiche diventa, nella creatività di Binta Diaw, riflessione sui fenomeni del mondo contemporaneo: identità plurali, appartenenza, colonialismo, genere, migrazione, femminismo. Binta Diaw, classe 1995, è un’artista visiva italiana di origini senegalesi. -taglio- Studia all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano e ottiene un MA all’ESAD Grenoble-Valence, in Francia. Nel 2018 segue uno stage al SAVVY Contemporary, a Berlino. Suoi lavori sono stati esposti a mostre a Berlino, Bamako, Dakar, Turku, Tangeri, Parigi, Napoli, Firenze, Bologna, Milano, San Marino. È stata insignita di diversi riconoscimenti come il “Premio Nocivelli (scultura)”, (Brescia, 2020); il “Bourse arts plastiques de la ville de Grenoble” (Grenoble, 2020), il “Premio Wonderful” (Firenze, 2021); il “Première laurèate - Prix Pujade Lauraine” (FR, IT, 2022), il “Premio Part-Rimini” (IT, 2022). Nel 2020 alla Galleria Giampaolo Abbondio di Milano la sua prima personale, “In Search of Our Ancestors’ Gardens”, titolo che riprende le prose di Alice Walker, “In Search of Our Mothers’ Gardens: Womanist”, sulla tradizione femminista delle donne afroamericane. I capelli, per Diaw, sono strumento di lotta e rivendicazione e per questo sfoggia con orgoglio le sue lunghe trecce. La tratta atlantica degli schiavi ha strappato dalle loro terre milioni di africani trasportandoli nelle Americhe per lavorare nelle piantagioni di cotone, riso, canna da zucchero, banane, cacao e tabacco. Le donne schiave resistevano anche servendosi di tecniche di intreccio di capelli per ricreare mappe delle piantagioni e nascondere semi all’interno delle trecce come mezzo per rigenerare la vita negli insediamenti futuri. “Era la loro maniera – spiega l’artista – di portare con sé qualcosa della loro cultura. Una maniera geniale perché sapevano che i loro capelli non sarebbero stati toccati come i loro corpi.-taglio2- È stato così che hanno disperso i semi nei continenti come fanno il vento e gli uccelli”. Intrecci di capelli sono le architetture simboliche della sua opera “Uati’s Window”, del 2020. Partendo da questa storia, Diaw cerca risposte attraverso l’arte, con le sue opere site-specific. I suoi giardini, spazi metaforici di trasmissione orale come per le donne di una volta, sono radici di mangrovia che ricordano quelle che offrivano rifugio agli schiavi. La spiaggia di mangrovie è una riflessione sulla possibilità di essere radicati nonostante il movimento. Nella sua opera “Chorus of Soil”, nel 2019, riproduceva la planimetria di una nave per il trasporto di schiavi nel Settecento e ogni zolla di terra rappresentava un essere umano. “Lo sfruttamento dei corpi dei neri avviene anche oggi nei campi del Sud Italia” – afferma, anche se oggi i contesti sono differenti ma sempre di sfruttamento. Anche oggi quando si reca in Senegal è percepita come una “toubab”, nera aliena perché nata in Europa. In Italia spesso non è considerata come italiana per via del colore della pelle. Così dà vita all’opera “Black Powerless”. Molto espressiva la sua serie fotografica “Paysages Corporels”, iniziata nel 2019, realizzata con dettagli anatomici di sé stessa in bianco e nero, sulla quale fa interventi di segni, tracce di colore per trasformare il corpo in geometrie e nuovi paesaggi. Oggi pensa al suo lavoro artistico come ad un “momento di rigenerazione”, più consapevole delle sue responsabilità in quanto artista. L’uomo ridotto a pura merce, il sangue degli schiavi, la ferita del colonialismo, e insieme la terra, i semi, la mangrovia che germinano nuova vita per un nuovo equilibrio tra passato e futuro. “Sogno che il mio percorso e gli obiettivi che ho raggiunto – spiega l’artista – siano d’ispirazione per le prossime generazioni”. Di sicuro lascia un forte e significativo segno, un germe di cambiamento.





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