Il volume “La maschera e il codice” di Marco Rossano e Edoardo Boncinelli, conduce dai riti di passaggio agli avatar digitali
“La maschera e il codice. Trasfigurare l’identità dai riti di passaggio agli avatar digitali”, è il saggio di Edoardo Boncinelli e Marco Rossano, LUISS University Press, corredato dalle significative fotografie di Ferdinando Scianna. -taglio- Boncinelli è un genetista di fama mondiale. Le sue scoperte sono state inserite tra le più importanti nella storia d’Italia. Rossano è studioso e sociologo. Si occupa di sociologia delle comunicazioni e antropologia visuale. Ha curato la regia di numerosi documentari. Entrambi conducono il lettore in un grande viaggio nella storia della maschera attraverso i secoli, come prodotto culturale e rappresentazione simbolica, con un futuro ancora tutto da scoprire. Marco Rossano ci racconta in esclusiva il saggio scritto a quattro mani. Le maschere e il digitale, due cose che apparentemente hanno poco in comune… “Innanzitutto, desidero esprimere la mia profonda gratitudine al professor Boncinelli: è stato per me un onore e una grande soddisfazione condividere questo percorso con un gigante della scienza e della cultura italiana. Il tema della maschera e quello del digitale, pur sembrando distanti, rivelano sorprendenti affinità. Entrambi sono strumenti di codifica, veicoli di messaggi da interpretare, e in questo senso, mezzi di comunicazione. La maschera, infatti, non serve solo a celare: è un dispositivo che, proprio nel suo nascondere, mette in evidenza. Serve a evocare, a trasfigurare, a comunicare qualcosa che il volto nudo non potrebbe dire. È un simbolo attivo, che nel suo nascondere svela un altro livello di verità. Così come accade nel digitale, dove l’informazione — il messaggio — non si mostra mai in forma diretta, ma viene sempre filtrata, trasformata, codificata attraverso algoritmi, interfacce, linguaggi. Come accade nel mondo digitale, anche la maschera trasforma e trasmette un significato, adattandolo al contesto in cui si trova. Sia il digitale che la maschera operano attraverso processi di codificazione: travestono un messaggio in un altro, ne alterano la forma per renderlo accessibile, comprensibile, o talvolta per proteggerlo. Maschera e digitale sono forme di “travestimento semantico”: il messaggio originario si trasforma per potersi adattare al contesto, per essere interpretato, compreso, o talvolta protetto. Pensiamo ai dati criptati, ma anche ai simboli rituali: entrambi richiedono una chiave di lettura, un processo di decodifica che è sempre culturale. La codificazione digitale è sì diversa da quella naturale ma non le è aliena, ne rappresenta una continuità in altra forma. Ogni atto di codificazione, in fondo, implica un mascheramento, una mediazione. Se pensiamo alla vita stessa come a un insieme complesso di messaggi in uscita e in entrata che hanno bisogno di codificazioni e trasformazioni, allora anche la maschera, da semplice oggetto, si carica di significato. Diventa un linguaggio, un codice culturale e simbolico. Inserita nel suo contesto rituale o sociale, la maschera stabilisce un ponte tra il mondo umano e altre dimensioni: visibili o invisibili, concrete o virtuali. In questo senso, la maschera e il digitale raccontano e decifrano, ciascuno a modo proprio, l’essenza della nostra umanità”. Le maschere, quindi, consentono di esplorare nuove realtà… “La maschera, in sé, è un oggetto apparentemente inerte. Ma acquista significato solo quando viene attivata all’interno del suo contesto d’uso: un contesto rituale, culturale, sociale. È in quel momento che si trasforma in un medium, un canale capace di connettere l’individuo con realtà altre — siano esse il mondo degli spiriti, degli antenati, della natura o degli esseri umani. La maschera non è mai solo una copertura: è uno strumento di trasformazione e relazione. Quando le maschere vengono rimosse da questo contesto, come spesso accade nei musei, perdono gran parte della loro funzione originaria. Diventano oggetti estetici o etnografici, privati della loro carica simbolica e performativa. È un po’ come tentare di comprendere una lingua guardando solo l’alfabeto: manca l’azione, la voce, la relazione con l’altro. Oggi stiamo assistendo alla nascita di nuove forme di maschera. Nei mondi digitali e virtuali, indossiamo maschere immateriali: avatar, filtri, skin, identità sintetiche. Anche queste ci permettono di esplorare e abitare altri mondi, di comunicare, di sperimentare nuove relazioni. E, proprio come le maschere rituali, anche quelle digitali ci trasformano, ci proteggono, a volte ci rivelano.-taglio2- L’intelligenza artificiale stessa può essere vista come una nuova forma di maschera: un’interfaccia che media il nostro rapporto con dati, linguaggi, immagini, e che ci consente di accedere a dimensioni di conoscenza o di creatività prima inaccessibili. Il bisogno di mascherarsi, o, meglio, di codificare e trasformare la propria identità per entrare in relazione con l’Altro, è una necessità profonda e universale dell’essere umano. Che si tratti di riti arcaici o di mondi digitali, le maschere continuano ad accompagnarci perché danno forma a qualcosa di essenziale: la nostra aspirazione a comunicare con ciò che ci è invisibile, sconosciuto, o semplicemente altro da noi”. Da anni si teorizza il futuro dell’umanità in un mondo di intelligenze artificiali: opportunità o pericoli, come ci mostrano spesso al cinema? “La letteratura e il cinema di fantascienza hanno da sempre avuto la capacità di anticipare scenari tecnologici, intuendo prima della scienza stessa le implicazioni culturali, sociali ed etiche delle innovazioni. Basti pensare al super computer HAL 9000 in 2001: Odissea nello spazio, un’intelligenza artificiale così evoluta da sfuggire al controllo umano, fino a diventare minaccia. Le rappresentazioni dell’intelligenza artificiale sul grande e piccolo schermo sono spesso cupe, distopiche, segnate da un conflitto insanabile tra uomo e macchina. È raro trovare narrazioni in cui l’IA sia raffigurata come alleata o come reale risorsa per l’umanità. Questo non credo sia casuale: risponde a una dinamica psicologica profonda, quella di proiettare sull’ignoto le nostre paure più ancestrali, trasformandole in racconto per esorcizzarle, contenerle, comprenderle. Ma è importante ricordare che l’intelligenza artificiale, come ogni tecnologia, è uno strumento. Non è buona o cattiva in sé: è l’uso che ne facciamo a determinare le conseguenze. Le sue potenzialità sono enormi, tanto quanto i rischi. Non dobbiamo demonizzarla o idolatrarla, ma sviluppare una consapevolezza critica. È necessario costruire un’etica dell’uso, interrogarsi su chi decide, su quali valori guida il progresso, su quale idea di umanità vogliamo preservare o trasformare”. In un mondo fatto di tante e forse troppe informazioni, ci viene incontro la digitalizzazione? “Viviamo immersi in una quantità di informazioni senza precedenti. Ogni giorno siamo esposti a una mole enorme di dati, stimoli, messaggi che richiedono la nostra attenzione, la nostra elaborazione, la nostra reazione. È l’epoca dei big data, del flusso continuo, della connessione permanente. Il problema non è solo la quantità, ma la velocità con cui tutto accade. I tempi dell’elaborazione, della riflessione e persino dell’emozione sembrano compressi. Siamo chiamati a interpretare il mondo mentre ci scorre addosso, spesso senza avere davvero il tempo o gli strumenti per comprenderlo. In questo contesto, la digitalizzazione ci offre da un lato la possibilità di organizzare, archiviare, accedere rapidamente a contenuti complessi, ma dall’altro rischia di amplificare il “rumore”: un eccesso di stimoli che rende difficile distinguere ciò che è significativo da ciò che è superfluo, ciò che ci riguarda da ciò che ci distrae. Ecco allora che il ruolo della maschera torna attuale in una nuova forma. La maschera, oggi, può essere letta come una strategia di mediazione e di sopravvivenza emotiva: un filtro che ci consente di selezionare, proteggere, rappresentare una parte di noi stessi nel caos dell’informazione globale. Ma è anche uno strumento di partecipazione, perché attraverso la maschera continuiamo a cercare connessione, espressione, identità”.