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Alice Diop

di Maresa Galli

Numero 237 - Febbraio 2023

La mascolinità tossica, la virilità, il razzismo, la salute mentale, Parigi, la comunità senegalese, il colore della pelle, le difficoltà di chi vive in periferia, tutto raccontato da Alice Diop


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Alice Diop, nata nel quartiere Cité des 3000, ad Aulnay-sous-Bois, città francese, nel 1979, è scrittrice e regista. Figlia di genitori senegalesi, laureata in Sociologia all’Università di Évry, con all’attivo studi di Storia, diventa documentarista, e proprio la sua banlieue d’origine dà vita al suo primo lavoro, “La Tour du monde”, nel 2005. -taglio- Seguono altri documentari che le conferiscono fama: “Clichy pour l'exemple”, “Les Sénégalaises et la sénégauloise”, “La mort de Danton”, “La permanence”, “Vers la tendresse”, “Nous”. Con “Vers La tendresse” vince il César Award del 2017 come miglior cortometraggio e nel discorso della premiazione dedica il film alle vittime di violenza da parte della polizia. Riceve numerosi e prestigiosi premi grazie al suo impegno sociale. Dopo gli studi umanistici si è formata in documentari alla scuola di cinema statale di Parigi, la Fémis. Temi ricorrenti nei suoi film sono la mascolinità tossica, la virilità, il razzismo, la salute mentale, Parigi, la comunità senegalese, il colore della pelle, le difficoltà di chi vive in periferia. Il suo primo film di finzione, “Saint Omer”, Leone D’Argento – Gran Premio della Giuria e Leone del Futuro per la migliore opera prima a Venezia, rappresenterà la Francia agli Oscar. “Saint Omer” è tratto da una sceneggiatura di Diop scritta con la montatrice Amrita David, e in collaborazione con Zoé Galeron (London River, Road to Istanbul) e la sceneggiatrice Marie Ndiaye. Ispirato a un fatto di cronaca, prende il nome dalla città della Francia in cui si è tenuto il processo per infanticidio di Fabienne Kabou, una donna senegalese che ha abbandonato la figlia di quindici mesi su una spiaggia di notte. “Nel giugno del 2016 ho assistito al processo di una donna che aveva ucciso la figlioletta, abbandonandola su una spiaggia in Francia con l’alta marea – racconta - ho pensato che la donna avesse voluto offrire la figlia al ‘mare’, una ‘madre’ ben più potente di quanto non potesse esserlo lei stessa. Ispirata da una storia vera e spinta da un’immaginazione intrisa di figure mitologiche, ho scritto questo film su una giovane scrittrice che a -taglio2- ssiste al processo di una madre infanticida, con lo scopo di scrivere una rivisitazione contemporanea del mito di Medea. Ma nulla procederà come aveva previsto: l’impenetrabilità dell’accusata porterà la giovane donna a riflettere sulla sua stessa ambiguità nei confronti della maternità. Ho voluto girare questo film per sondare l’indicibile mistero di essere madre”. Le dichiarazioni dell’imputata, Fabienne Kabou, che nel film si chiama Laurence Coly, interpretata da Guslagie Malanga, rispecchiano tutta la complessità, l’ambivalenza della mente umana, il malessere. Il mito di Medea è il riferimento del film che ha anche elementi che riconducono a “Lo straniero di Camus”, con il crimine che non ha motivazione. Il film non offre risposte perché non ce ne sono. Con la forza delle parole e con le inquadrature fisse la regista vuole scuotere certezze e luoghi comuni. “I film non cambiano il mondo – afferma – ma cambiano gli spettatori che insieme possono cambiare il mondo”. Con “Saint Omer” ci si pone domande sul complesso rapporto con la maternità, sulle sue contraddizioni. L’infanticidio è, per Diop, ancora il più grande tabù. E il nostro modo di vivere in società rivela tutta la vulnerabilità umana, la sua complessità. Si riflette anche sulla questione migratoria e post-coloniale. La vicenda narrata nel film mostra allo stesso tempo la vita di due donne nere nate in Francia e una condizione universale, ponendo domande sulla maternità mettendo in discussione il nostro giudizio, spingendo a modificare la nostra visione che dovrebbe essere più empatica e meno assoluta.





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