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A suon di jazz

di Maresa Galli

Numero 183 - Dicembre 2017

Incontriamo un artista che ha fatto della musica (e del jazz) il centro del suo universo.


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Inizia la sua carriera discografica in qualità di leader nel 1994 producendo “Walking” (Pentaflowers), presentandolo all'Umbria Jazz del 1994. Grazie a questa importante vetrina, Mingo nel corso degli anni è riuscito a far conoscere la sua musica al grande pubblico. Nel 2001 l’artista campano pubblica “Talkin' Jazz” (Red Records), tributo ai musicisti che hanno reso grande la storia del jazz, ponendo l'accento sul lavoro dei chitarristi. Nel 2007, invece, è il momento di “Parker's Dream” (Rai Trade), tributo con la sola chitarra ad un grande del jazz mondiale: il sassofonista Charlie Parker. Nel 2011 con “We Remember Clifford” il chitarrista approda all'Universal Music, omaggiando Clifford Brown, trombettista jazz statunitense. Tra i dieci migliori chitarristi jazz italiani secondo il referendum “Jazzit Award” dei lettori della rivista “Jazzit”, il chitarrista e compositore jazz Nicola Mingo è considerato uno dei maggiori esponenti europei della chitarra modern mainstream jazz. Mingo ha all’attivo sette album e tanti concerti live. Il suo stile è figlio della grande scuola jazzistica, grazie alla quale ha dato vita a brani unici e live indimenticabili. -taglio- Sei tornato a suonare a Napoli, all’Osteria del Porco di Marco Zurzolo?

“Sono felice di tornare a Napoli dove mi sono formato, anche al Conservatorio e ho avuto tantissimi amici artisti. Oggi vivo e lavoro a Roma. È importante restituire alla città quello ti ha dato: il sold out all’Osteria del porco è stata una grande soddisfazione professionale e umana. Ritrovare nella propria città tanto calore, tanto pubblico appassionato della tua musica è un grande piacere e sono felice di aver ritrovato Marco Zurzolo che ho sempre stimato.”

Il tuo tocco di chitarra è pulito, classico, ispirato dai grandi maestri del jazz...

“Esatto! Il mio ultimo lavoro discografico si intitola ‘Swinging’, omaggio allo swing anni Sessanta. In questo album, inoltre, ho voluto toccare il periodo storico di Wes Montgomery, Art Blakey and the Jazz Messengers, il periodo che è stato decisamente più fervido a livello creativo. Ho avuto la fortuna di suonare a Roma con Antonello Vannucchi al pianoforte, Giorgio Rosciglione al contrabbasso e Gegè Munari alla batteria, pionieri di questa musica. Loro hanno avuto la capacità di sdoganare il jazz degli anni ’60 quando non c’era nulla in Italia - erano anche la ritmica di Romano Mussolini. È molto importante, per me, aver inciso in un album questo sound tipico di un determinato periodo storico.-taglio2- ‘Swinging’ contiene brani miei originali, ispirati dalla tradizione e dal jazz moderno, sempre ortodosso, da George Benson; omaggio i classici, da Wes Montgomery a Miles Davis, da James Moody a Jimmy Smith. È il mio secondo lavoro per Universal Classic & Jazz Music.”

Quali sono stati gli anni di svolta nel jazz e cosa consigli ai giovani musicisti?

“Il jazz è sempre stato in evoluzione. Negli anni nascono nuove forme di jazz: ben vengano, ma sempre nel rispetto della tradizione. Se nel ’20 si suonava Dixieland, poi ci sono stati swing, be bop, hard bop, cool, free, fusion, contemporary, acid, rap: queste sono tutte forme riconducibili ad un discorso di base che riguarda il ritmo. Finché ci sono swing e ritmo, va tutto molto bene. Se si sconfina troppo, si perde il punto di partenza. Ancora oggi quello che facevano Charlie Parker e Dizzy Gillespie si ritrova in tutta la musica leggera. Per quanto riguarda i giovani musicisti, li trovo determinati, preparati, di livello, mentre noi eravamo pionieri: disponevamo del metronomo, tiravamo giù dai libri le frasi, studiavamo il solfeggio, le basi. Oggi i giovani hanno tutto, eseguono gli assolo uguali a quelli dei compositori, ma mancano di personalità. Ahimè troppo spesso sono cloni. Bisogna prendere dai grandi per poi osare, e fare musica nel proprio stile. Questo è il segreto per diventare dei veri artisti!”





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