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La creatività per risolvere i conflitti

Pace e dintorni

di Johan Galtung

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Ho recentemente ricevuto The National Society of High School Scholars, Premio per il Miglioramento del Mondo Claes Nobel, Centro Carter


Sono molto grato per questo riconoscimento intitolato a Claes, pro-pronipote di Alfred – e all’Associazione Nazionale degli Studenti delle Scuole Superiori) con sede al Centro Carter di Atlanta (Georgia, USA), perché non è facile sviluppare quella necessaria dedizione all’Istruzione, riuscendo a trattare gli alunni sempre col massimo rispetto e conferendo dignità. La società ha istituzioni, come la famiglia, il lavoro e l’economia, che non hanno sempre la giusta rilevanza mediatica. Gli sport ottengono troppa attenzione; l’istruzione troppo poca. La politica concerne il condurre e l’essere condotti, l’apparato militare riguarda l’uccidere per non essere uccisi. Questi due ambiti espongono a guai. Führer e Duce sono termini rispettivamente in tedesco ed italiano che significano guida/condottiero, sebbene “duce” abbia a che fare anche con educare. Ed attenzione: si tratta di concetti verticali e gerarchici anche senza nazismo e fascismo. Oggi, invece, abbiamo bisogno di scenari sociali orizzontali, in cui le persone intrattengono rapporti equi e armoniosi, mediante associazioni e reti condivise, orizzontali e inclusive per una reciproca inspirazione. A proposito di uccisioni: gli USA hanno ucciso più di 20 milioni di persone in 37 paesi solo dopo la II guerra mondiale, dal 1945; e sono intervenuti militarmente 248 volte in altri paesi dacché Thomas Jefferson inizio in Libia nel 1801. -taglio- 20 milioni di persone uccise vuol dire 200 milioni di persone in lutto, “menomate” – famigliari, amici, vicini, colleghi. Che non si adattano tanto facilmente a questo tipo di leadership USA. E neppure un secolo prima due gruppi di [nord]americani praticarono fra di loro quelle stesse competenze belliche e quel tipo di leadership, con la Guerra Civile. La soluzione dei conflitti sottostanti? Se invece del compromesso della vergogna del 1850, “mantenere la schiavitù ma eliminare la confederazione”, ci fosse stato magari un “manteniamo molta autonomia, ma eliminiamo la schiavitù”, avremmo avuto una Comunità degli Stati Americani, C.A.S. invece di U.S.A., ma appare un prezzo accettabile, no? Se nel 1924 si fosse lasciato perdere il Trattato di Versailles, togliendo di mezzo la miglior carta di Hitler? Questo è il genere di cose su cui lavoro, o meglio questo è il mio approccio. Parlando, in occasione dei conflitti, con tutti i coinvolti, senza mai criticare e non pontificando; semplicemente chiedendo “come sarebbero USA-Germania-Afghanistan-Medio Oriente-Europa-Ucraina-Occidente/mondo islamico etc. nel mondo in cui ti/vi piacerebbe vivere e che ti/vi piacerebbe vedere?” Recentemente il New York Times ha chiesto al generale James Mattis (Segretario alla Difesa designato da Trump): “Non vinciamo più guerre. Che ci voglia il waterboarding [metodo di tortura che simula l’affogamento]?” ed il Generale Mattis: “Non l’ho mai trovato utile. Datemi delle sigarette e bevande, e faremo di meglio”. Creare l’atmosfera, parlarci. Farsi dare gli obiettivi di tutti i contendenti, verificarne la legittimità, e poi creare ponti fra gli obiettivi legittimi di tutti con creatività. Lavorando su 150 conflitti con innumerevoli dialoghi, non ho mai trovato alcun contendente senza almeno un punto ragionevole su cui poter costruire. La prima volta fu nel 1958, a Charlottesville in Virginia. Ci arrivai coi miei studenti del mio corso di laurea sui conflitti alla Columbia University, in sociologia, e facemmo circa 2000 interviste sulla desegregazione, legge sovrana federale del 1954 intesa a dividere “con tutta velocità” i neri dai segregazionisti bianchi e dagli integrazionisti bianchi. La città voleva la desegregazione, ma in modo pacifico. Conoscevamo tutte le parti in causa, e ci venne in mente un’idea che rese compatibili quelli che parevano due obiettivi incompatibili. Un simile approccio dovrebbe essere praticato sempre, dovunque e comunque. Prendiamo ad esempio l’ambito CIA. Non è la mia istituzione preferita, dato che spesso opta per le uccisioni extra-giudiziarie, rendendo gli USA il leader mondiale della tortura, praticandola, con le rendition [rapimenti d’indiziati stranieri per estorsione d’informazioni “sensibili” e/o ricatto/rappresaglia, ndt], insegnandole ad altri, oltre a contribuire a fare degli USA il paese più bellicoso al mondo. Ma se si rendesse la CIA un’istituzione migliore, più positiva? Non torturando i “terroristi” catturati, bensì chiedendogli che cosa vorrebbero veder realizzato, quali siano i loro obiettivi. Non cominciando a pretendere che abbassino le armi, che non ci siano più IED (= ordigni esplosivi improvvisati); cominciando invece chiedendogli perché pensino che gli servano le armi. È probabile che ci si trovi qualcosa di ragionevole, com’è successo a me con tre talebani in Afghanistan, mentre litigavano fra loro Al Qaeda da qualche parte, il Dipartimento di Stato USA e un generale del Pentagono a Washington (DC) (tutti molto violenti). Dire: “Fate questo!” oppure “Non fate quello!” non serve a niente, meglio dirselo a se stessi. Gandhi diceva: “Siate il futuro che volete vedere!” Non diceva: “Predicate”. Spero che pensiate an che voi che volendo ridurre la violenza e la guerra con uccisioni e violenza, si coltiva solo altra violenza; risolvere invece i conflitti, guarire traumi soggiacenti, può costruire la pace. E devono parlare le azioni di ciascuno, i fatti non le parole e gli ammonimenti. Stiamo potenzialmente parlando di risparmiare migliaia, milioni di vite umane – da moltiplicare per un fattore di almeno 10 tenendo conto dei menomati (le vittime indotte) e aggiungendo l’effetto promotore di culture e strutture di guerra e di violenza. È ovvio che qualcuno vedrebbe lesi i propri interessi economici, ma non si può monetizzare la pace. Le vite umane non hanno prezzo; recano in sé il più prezioso di tutti i doni, la vita. Dobbiamo fare di tutto per non toglierla, crearla e preservarla, anche perché alla fine sarà la natura a porle fine quando vorrà. E per iniziare, potremmo provare tutti a mettere in pratica l’esortazione buddhista che recita: “Competi con te stesso; chiedendoti come far meglio quel che fai. E quando affronti la critica più aspra, chiediti sempre: ‘C’è qualcosa di rilevante in questo, qualcosa da cui posso imparare?’.”

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